ROMA – Una rivoluzione “corsara” che ha diviso il mondo in estimatori e detrattori, ma che – fra alti e bassi – ha fatto breccia nella sua sfida al potere e ai media “mainstream”.
Sono passati 10 anni da quando Wikileaks nacque come un piattaforma web per pubblicare file segreti carpiti a cancellerie e istituzioni varie in giro per il mondo e immagazzinati da un server nascosto nella remota Islanda, al riparo dalle vendette di governi o 007 stranieri: 10 anni in cui il sito è diventato un marchio di fabbrica, capace di dare una scossa all’informazione nell’era digitale, rivelando scandali e verità scomode di tutti i tipi, imbarazzando e facendo infuriare superpotenze, magnati, consigli di amministrazione di grandi colossi finanziari. Ma suscitando anche polemiche e perplessità.
La creazione dell’hacker-giornalista australiano Julian Assange – un uomo messosi “al servizio della verità”, nella narrativa dei suoi non pochi fan – è passata dall’essere una organizzazione aperta e “anarchica” a un sistema sempre più strutturato.
Negli ultimi tempi talora scalzato proprio dai media “mainstream” o da gruppi di giornalisti investigativi forse più “certificati”, certo meno “fuori controllo”.
Criticato da più parti, anche per taluni atteggiamenti da guru, Assange si è sempre difeso strenuamente da tutte le accuse. Comprese quelle legali sui presunti abusi sessuali (avrebbe rifiutato di usare il condom con due donne svedesi che in precedenza avevano avuto rapporti consenzienti con lui) contestatigli dalla procura di Stoccolma. Accuse che dopo la richiesta di estradizione arrivata dalla Svezia al Regno Unito, dove l’attivista passava gran parte del tempo, l’hanno spinto a cercare e ottenere nel 2012 asilo politico nel rifugio-prigione dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra.
Un’odissea che è frutto delle macchinazioni di chi – Usa in testa – vorrebbe fargliela pagare, dice lui. Il suo timore più grande? Finire in una galera di massima sicurezza americana per le continue rivelazioni di Wikileaks sui segreti militari e diplomatici di Washington: da quelli sulla “guerra sporca” in Iraq nel 2010 fino ai “cables” che non hanno risparmiato l’amministrazione Obama e soprattutto Hillary Clinton, ex segretario di Stato, oggi candidata democratica alla Casa Bianca.
Lo scontro fra lei e Assange, alimentato in ultimo dallo stillicidio di rivelazioni sulle trame e i trucchi elettorali del Partito Democratico pubblicate dal sito, è destinata ad acuirsi. Forse persino ad arrivare ad uno “show-down” qualora Hillary conquistasse la presidenza. Tanto più che in quest’ultima “battaglia” Wikileaks si è ritrovato solitario o quasi rispetto ai tempi in cui giornali liberal quali il Guardian o il New York Times, gli facevano da sponda.
Negli anni lo stesso Julian è passato del resto dall’essere dipinto come una sorta di eroe senza macchia dell’informazione digitale a finire sotto la lente d’ingrandimento di chi ne sottolinea – per ragioni più o meno disinteressate – le molte contraddizioni.
Come emerge nel film “Quinto Potere” del 2013, ad esempio, dedicato all’ascesa di Wikileaks, in cui a un certo punto la storia viene raccontata attraverso il filtro della smania di protagonismo attribuita all’attivista australiano che, offuscato dal successo, sembra divorare ogni misura e limite etico fino a legittimare il “sacrificio” di alcune fonti dei “leaks” in nome dei segreti da rendere pubblici. Emblematica la vicenda di Chelsea Manning, il soldato transgender dell’esercito americano condannato a 35 anni di carcere militare per aver passato al sito anti-segreti oltre 700 mila documenti diplomatici e militari top secret: vicenda che in effetti ha segnato agli occhi di alcuni una perdita di “lustro” per Wikileaks, per la sua coerenza e la sua credibilità.
Non è un caso che proprio nel 2013 Edward Snowden, ex analista della Cia diventato la “talpa” del Datagate, abbia preferito lavorare con un gruppo selezionato di reporter per la diffusione di documenti sul sistema di sorveglianza del grande orecchio dell’Nsa. Mentre un’altra “rivincita” i media tradizionali se la sono presa lo scorso aprile con la pubblicazione dei Panama Papers, la più grande fuga di notizie nella storia della finanza, grazie al lavoro del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (in inglese Icij).
La concorrenza fra la creatura di Assange e quelli che per lui restano i vecchi media è alla fine degenerata in scontro politico con reciproche accuse. Da un lato, Wikileaks afferma che dietro i Panama Papers ci sarebbe un attacco su commissione degli Usa sferrato contro Vladimir Putin.
Dall’altra parte, il New York Times ha di recente puntato il dito sul sito anti-segreti sostenendo – anche sullo sfondo di un certo vento neo maccartista tornato a spirare in America, dal fronte clintoniano e non solo – che farebbe “il gioco di Mosca”.
Resta comunque, al netto di veleni e giudizi di valore, il contributo cruciale a un nuovo modo di far informazione dato da Wikileaks: in cui chiunque può ambire al “diritto” di pubblicare nell’anonimato file riservati, facendoli conoscere al mondo. A conferma della massima di Oscar Wilde secondo cui “ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero”. (Ansa)
Alessandro Carlini e Alessandro Logroscino