ROMA – «Ogni volta che passa da Piazza Colonna, il vecchio cronista che imparò le notizie sotto la guida ondivaga ma estrosa di Renato Angiolillo, un mix inedito di Bel Ami e di Scarfoglio, ha una strizzatina al cuore…». Accade anche a me. Ma, sulla «Stampa», lo confida nostalgico Igor Man, raccontando di sé e del suo esordio a ricasco del direttore che lo fece da subito grande inviato in quello che fu, nel primo dopoguerra, il quotidiano romano più diffuso, anzi l’unico non di partito («ll Messaggero» era ancora in quarantena) nella poca editoria rinata libera dopo l’arrivo degli alleati (…).
Con Angiolillo, meridionale iroso negli attimi, non alla distanza, mai un addio era definitivo. Oltre tutto, per avventure e disavventure di vita, era un permissivo filosofo del precario. Anni prima, ostinato antifascista lucano come il fratello Amedeo fondatore del «Giornale di Napoli», era stato costretto a campare di espedienti: pubblicitario, regista, produttore cinematografico, anche venditore delle giacenze dell’editore Laterza con libri recapitati ai familiari dei morti più abbienti fingendo che fossero le ultime volontà del defunto. Coi morti ha sempre avuto una certa dimestichezza commerciale. Dei necrologi a pagamento, suo crisantemo all’occhiello, diceva: «I morti sono la vita del giornale».
Tra tanti nomadi di passaggio, a rimpiangere i giorni dell’avventura e della indigenza romantica del primo «Tempo» di via dellla Stelletta, un paio di stanze dietro il Pantheon, e rimasto Marcello Zeri come angiolilliano monogamo. Prima di diventare eterno redattore capo di desk con Scaparro, Sterpa, Angeli e Jattarelli, esordì coi calzoni corti allo sport. Era quello che nella boheme di redazione pedalava di più. Anche perche, ogni notte, accompagnava qualche collega a casa sulla canna della sua «Bianchi», finito il lavoro nella vecchia tipografia dove si stampava pure l’«Avanti!» e Pietro Nenni fu visto turbarsi quando arrivò la notizia che era stato ucciso l’antico compagno romagnolo Benito Mussolini. Per essere assunti, bisognava possedere una bicicletta. Aveva l’auto, una Balilla tre marce, solo il segretario di redazione Serafini. E solo il direttore, se vinceva a poker, poteva permettersi il lusso di andare e venire in carrozzella.
Zeri è stato l’ultimo depositario delle leggende fiorite su quello charmant e squattrinato direttore-editore-inventore. «Il Tempo» lo inventa, con Leonida Repaci, nella torrida e stralunata estate del 1944, a Roma appena liberata. E difatti esordisce con un doppio foglio socialisteggiante che inneggia a Piazzale Loreto e denuncia le spie dell’Ovra.
ll futuro «senatore ippico», come lo chiamerà Fortebraccio, e appena uscito dalla clandestinità antitedesca insieme con l’ebreo Ettore Della Riccia, che farà capocronista, e l’intera famiglia Giubilo, che assumerà in blocco. Non è stato mai però esattamente chiarito se fosse vero che, per ottenere il permesso di uscire in esclusiva dal governatore alleato di Roma, Charles Poletti, si sia rivolto alle disinvolte arti persuasive (festini, donne e coca) di Max Mugnani.
Fatto è che, con Repaci comproprietario e condiretttore, e con centomila lire in prestito, «ll Tempo» e l’unico quotidiano indipendente in edicola e si accaparra le migliori firme su piazza: il «conte rosso» Piovene e Barzini jr redattori capo; Falqui, Belli e Grande alla cultura; Malaparte, Lilli e Artieri inviati; D’Amico, Pannain, Guzzi. Doletti e un giovanissimo Rondi critici; Praz, Alvaro. Moravia, Savinio, Zingarelli, Corbino, Cargiulo, la Pietravalle tra gli altri collaboratori.
Presto, liquidato Repaci con la restituzione del prestito fondatore, Angiolillo svolta politicamente. Un po’ per convinzione, un po’ per convenienza.
Nella Roma degli epurati, dei reduci, dei ministeriali, dell’Uomo Qualunque, delle scomuniche di Pio XII e delle scritte «Arivolerno er Puzzone», si fa protettore di valori borghesi e tradizionali, di sconfitti e ripudiati, di compromessi in buona fede col vecchio regime.
Rilancia firme «scomode» come D’Andrea, De Stefani, Businco, Assante, Longanesi, Aponte, Ansaldo, Borelli, Longo e anche ex «repubblichini» come Marco Ramperti, Pino Rauti, Aldo Giorleo e Alberto Giovannini.
Quest’ultimo, un bolognese arpinatiano passionale ed eterodosso, amico del socialista Giacomo Mancini e del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, può dire liberamente la sua, anche in contrasto con la linea editoriale, sulla «Lettera della domenica». E’ lui che convince i missini a votare per Gronchi al Quirinale e per Tambroni al governo.
Tra gli anticomunisti, Il Tempo è giornale ascoltato anche se, ad ogni elezione politica, manda in bestia i lettori di destra precedendo il Montanelli del «Turiamoci il naso e votiamo dc». Angiolillo alle firme reprobe affianca referenziati politici come Vittorio Zincone, l’editorialista Alberto Consiglio che viene dal «Mattino», il nipote Piero Accolti che viene dal «Mondo», l’inviato Ilario Fiore che viene da «l’Unità», lo scrittore Mino Caudana che viene dall’«Avanti!», il poeta Diego Calcagnoche viene da «Radio Bari», i cronisti Fasan, Guarini, Laskaraki che vengono da «Paese Sera».
Da «Il Tempo» a «Paese Sera», viceversa, passa Felice Chilanti. La Roma di carta, in quei tempi, non e manichea.
Un tipografo comunista, Libero Palmieri, da proto diventa direttore amministrativo del giornale che il Pci odia. Altri nomi: Giovacchino Volpe, Prezzolini, Soffici, Panfilo Gentile, Samminiatelli, Della Giovanna, Vacchieri, Bonfiglio, Paternostro, Zingarelli, Oreste Mosca, Prosperi, Tailarico, Paratore, Gianfranceschi, Contu, Selvaggi, Peirce, Lazzotti, Frignani, Agnese, Torchia, Badano, Chiappelli e Giovanni Mosca come vignettisti, il regista Vivarelli come canzonettologo e, per ultimo, il grande e inaddomesticabile spadaccino Enrico Mattei, esule dalla «Nazione» per aver attaccato certi nemici dell’editore petroliere Attilio «Artiglio» Monti.
Mattei, per l’ingaggio, pretende una stanzetta dirimpetto ai bagni: «Così, male che vada, potrò scrivere nell’ultimo rifugio della libertà: i muri del cesso». Stanzetta che dal ’73 prenderà il successore di Angiolillo, il rispettoso e formidabile edulcoratore Gianni Letta, l’ex corrispondente da Avezzano che da «direttore temporaneo» resterà a Palazzo Wedekind 15 anni. Il quale Letta, pur correggendo con la sua moderazione innata le ereditate durezze e spigolosità del giornale, conserva a Mattei anche una libera rubrica di «Pro e Contro» dove può applaudire (raramente) e sciabolare (quasi sempre) a destra e a manca (più a manca che a destra). Letta soffre in silenzio (…) ma non cambia mai una virgola.
Quelli tra la fondazione nel ‘44 e gli ultimi anni 60 sono giorni trionfali. «ll Tempo» e mattatore nel Centrosud, arriva a sfiorare le 350mila copie, per il decennale stampa un fascicolo-record di 56 pagine. Sono anni di scoop e di inchieste che lasciano il segno. Un primo colpaccio Angiolillo lo mette a segno come editore facendosi passare dal suo vicino di bancone tipografico Pietro Nenni la pubblicità che a lui fa schifo (e corruzione capitalista) e che, per ingraziarselo, inonda invece l’«Avant!».
Un secondo colpaccio e anche giornalistico, addirittura storico: i diari di Ciano. L’amministratore Tugnoli, ex campione di atletica, intercetta un emissario con un assegno scoperto ma e lo charme del direttore a convincere la vedova Edda, l’orfana ribelle del Duce, corteggiandola a rose rosse e whisky.
Angiolillo è un vulcano. Continua a inventare e reinventare. Riesuma i «Mosconi» di Scarfoglio, li affida alla soave futilità di Don Diego. Chiama i suoi cavalli come le sue rubriche scavezzacolle (Formicaio, Disco Rosso) e, se non gli ippodromi, domina i salotti mondani. Calamita la pubblicità dci film e i necrologi dei vip. A Nicola Archidiacono, un anziano D’Artagnan irpino che sfida ogni avversario a duello, fa gestire il «Cuore di Roma» che, istituito per un vetturino il cui cavallo e stramazzato morto in Via Veneto, raccoglie fondi per gli sfortunati. Curzio Malaparte torna con i bersaglieri a Trieste quando gli alleati la restituiscono all’Italia. Ilario Fiore vede e racconta la rivolta d’Ungheria. Mino Caudana, ebreo antifascista, inaugura una lunga serie di «fogliettoni» a puntate con «ll figlio del fabbro», appassionata biografia di Mussolini.
Un altro scoop mondiale, procurato da un avventuriero che al Cremlino si finge giornalista, e la prima intervista concessa da Kruscev ad un quotidiano occidentale. Angiolillo si giustifica geopoliticamente: un ucraino di cultura contadina, seppur sovietico, e uomo del Sud e merita credito. Ma Mario Tedeschi, ingaggiato per polemizzare con l’Eni, se ne va per protesta. Teme che il giornale stia diventando filocomunista. Ma sbaglia.
Quel direttore corsaro imperversa senza riguardi e barriere ovunque l’istinto e il fiuto lo conducano.
Al sottoscritto, ad esempio, affida il compito di demitizzare, prima che lo faccia un’indignata Indira Gandhi, la lacrimogena campagna mediatica scatenata dalla Rai-Tv e dalla grande stampa per sfamare gli indiani (…).
Nonostante moniti e anatemi vaticani, sempre al sottoscritto vengono commissionate 45 scabrose puntate sulle persecuzioni che e tornato a subire Padre Pio. Angiolillo vuol bene a un santo meridionale che, dice, fa del bene e porta bene. Il solito mix di fiuto, furbizia, scommessa, superstizione e altruismo di un giornalista che sa anche essere sentimentale e generoso, oltre che cinico (…). I suoi scherzi sono sovente feroci (…). Ma inventa anche gag a scopo benefico. Sa che il cronista Moggia combatte il pranzo con la cena coi suoi undici figli e, per aiutarlo senza umiliarlo, organizza una scommessa su chi ha il pisello più lungo e fa vincere quello più demografico.
C’e però anche un redattore che fa carriera beffando lui. Quando Egidio Sterpa se ne va lasciando vacante il suo box di redattore capo. Angiolillo vi colloca in prova Vanni Angeli. Poi gli telefona, fingendosi un lettore ma lasciandosi riconoscere dall’accento. «Chi parla?» «Con uno che dovrebbe essere il nuovo redattore capo…». «Se è così importante, mi sa dire quanto pesa uno strunz’?». Risposta: «Si dia una pesata e divida per tre». Si tiene il triplo strunz’ a conferma che ha scelto un redattore capo «scetato». E l’azzecca ancora una volta. Soprattutto, l’ha azzeccata con Gianni Letta facendolo prima segretario di redazione e poi direttore amministrativo e consigliere delegato. Cioe educandolo allo scettro come un tempo facevano i re (…). (Il Tempo)
Francobaldo Chiocci