ROMA – Secondo una previsione temeraria del presidente del Consiglio, l’avvocato Giuseppe Conte, il 2019 sarà un anno bellissimo. La speranza di tutti è che abbia ragione. L’evidenza di questi primi cinquanta giorni direbbe il contrario. Siamo entrati ufficialmente in recessione. Le previsioni di crescita del nostro Pil sono franate allo 0,2 per cento, il gradino più basso d’Europa. La produzione industriale è balzata all’indietro del 5,5 per cento. Si è scoperto che l’agognato reddito di cittadinanza non arriverà a destinazione per un milione e mezzo di lavoratori poveri: sei su dieci degli aventi diritto, più della metà. In Abruzzo, alle Regionali di dieci giorni fa, ha votato il 53 per cento, una percentuale allarmante, tranne per chi pensa che la democrazia parlamentare sia un orpello da smantellare, un ostacolo tra popolo e capipopolo.
Le uniche cose che salgono, e non pare di buon auspicio, sono il livello dell’insofferenza verso chi rema contro, dal Quirinale al Vaticano, e il volume delle minacce contro i nemici, dovunque si annidino. Bankitalia e Consob? «I vertici andrebbero azzerati» è l’opzione zero di Matteo Salvini. Azzerati. Come gli sbarchi dei migranti. O le canzoni straniere, da intervallare per legge con musica nostrana doc. Il giorno di San Valentino, a Melegnano, provincia di Milano, sul muro della casa di una famiglia che aveva da poco adottato un ragazzo senegalese è comparsa questa scritta: “Pagate per questi negri di merda”. È come se la natura di tanti italiani si stesse rapidamente trasformando, incattivendosi. Insieme a molti diritti su cui si fonda la nostra comunità, stanno saltando i valori che quei diritti sottendono e sostengono. Stavamo seduti sopra un vulcano di rabbia e rancore, e non ce ne eravamo accorti.
Se abbiamo forti dubbi su un 2019 bellissimo, abbiamo una certezza sul 2018: è stato un anno incredibile, l’eruzione di un’Italia delusa, spaventata, e anche un po’ spaventosa. È passato un anno, anche se sembra molto di più: 4 marzo 2018, un voto che cambia connotati e anima a un Paese, che da lì ha cominciato freneticamente a scollarsi, a disunirsi, a isolarsi da quell’idea di Europa che aveva contribuito a edificare, per inseguire pericolose alleanze con Paesi e concezioni del mondo lontani anni luce dai pilastri ideali della nostra Costituzione. Un anno durante il quale la sinistra ha assistito attonita al proprio disfacimento, dilapidando milioni di consensi e di speranze, in attesa di una rinascita che con fatica, e ci auguriamo con umiltà, proprio in queste settimane stava assumendo un qualche contorno riconoscibile (le ultime vicende di casa Renzi di certo non aiutano). Un anno dove la Terra che ci ospita ha visto peggiorare il suo già precario stato di salute, nell’incuranza e nello sfregio dei Grandi che dovrebbero invece proteggerne il cuore. E così la scienza, oltraggiata dall’incompetenza al potere. L’Internazionale dell’egoismo, del «me ne frego», ha rotto argini che sembravano incrollabili. E l’Italia è un fronte avanzato di questa ondata globale di “disumanesimo”.
Alzi la mano chi, un anno fa, avrebbe potuto immaginare che il ministro dell’Interno sarebbe stato indagato per sequestro di persona, oppure che l’ambasciatore francese a Roma sarebbe stato richiamato in Patria in segno di protesta, o ancora che una parlamentare di Forza Italia avrebbe guidato un gommone per forzare un blocco e verificare lo stato di salute di un’umanità derelitta tenuta in ostaggio su una nave a cui era negato l’approdo a un porto. E chi poteva spingersi a prevedere che persino la vittoria al Festival di Sanremo di un cantante milanese, ma di origini egiziane, sarebbe stata additata come una mossa contro il popolo sovrano?
È così, credo, che si senta il lettore di Repubblica quando ogni mattina apre il giornale: incredulo. Davvero siamo arrivati fin qui? Davvero, prima gli italiani? Davvero si possono mischiare nella stessa frase le parole “pacchia” e “migranti”? Davvero se uno muore durante un arresto ci si può chiedere: e che doveva fare la polizia, offrire cappuccino e brioche? Davvero Ong e trafficanti sono sulla stessa barca? Davvero una piattaforma digitale privata, dal dubbio funzionamento e dall’oscuro reticolo di interessi e scopi, può indirizzare le scelte strategiche di un governo?
Ecco, al cittadino disorientato mi sento di garantire soltanto una cosa: ogni giorno proveremo a capire e spiegare il tempo che viviamo, tempo imprevisto e dagli esiti imprevedibili, con la serietà, il rigore e la passione civile che sono il vero patrimonio di questo giornale e della comunità che rappresenta. Comunità eterogenea, che mai come oggi, nei mille rivoli nei quali manifesta il suo dissenso non verso un esito elettorale legittimo ma contro gli squarci alla democrazia che quell’esito quotidianamente produce, ha il bisogno vitale di una casa comune dove ritrovarsi. Ecco, noi siamo quella casa. E siamo aperti, ogni ora e ogni giorno, nelle edicole e nel vasto universo digitale. Pronti a informarvi, ma insieme ad accogliervi, ad ascoltarvi, a progettare con voi un’altra Italia possibile, e possibilmente più umana.
Nel suo primo editoriale, il primo giorno di vita di Repubblica, il 14 gennaio 1976, Eugenio Scalfari scriveva: «Questo giornale è un poco diverso dagli altri. Anziché ostentare un’illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente d’avere operato una scelta di campo. È fatto da persone che appartengono al vasto arco della sinistra italiana, consapevoli di esercitare un mestiere fondato su un massimo di professionalità e anche di indipendenza». Vent’anni dopo, il 6 maggio 1996, il secondo direttore di Repubblica, Ezio Mauro, rilancerà la sfida: «Repubblica non è un partito, come hanno semplificato in troppi, e non ha mai avuto un orizzonte diverso da quello del giornalismo. Ma è certo qualcosa di più di un giornale. Qualcosa in cui un pezzo d’Italia si riconosce, uno strumento di identità libera ma collettiva».
Il terzo direttore, Mario Calabresi, che mi passa il testimone e che idealmente abbraccio per il grande lavoro e le indispensabili dosi di modernità che ha saputo iniettare nelle vene del giornale, il 16 gennaio 2016 si presenta così: «Ho messo in valigia ciò che penso sia più necessario per combattere la crisi di fiducia che oggi la società ha verso l’informazione: capacità di mettersi in discussione, di correggersi in modo trasparente e di coltivare dubbi, che per me sono il sale della vita».
Come giornalista, non sono un figlio di Repubblica e non mi sono formato in questa scuola. Ma sono cresciuto anch’io, professionalmente e non solo, in sintonia con il lungo percorso di questa straordinaria avventura giornalistica e culturale. Da oggi ne prendo in prestito la guida, ringraziando l’editore per l’onore che ha voluto concedermi. Il giornale, specie un giornale che è qualcosa di più di un giornale, vive di sintonia profonda con i propri lettori. Quelli che l’hanno sostenuto nelle tante battaglie per un Paese più civile. Quelli che andremo a cercare per allargare la nostra casa comune. Il 2019 non sarà un anno bellissimo per l’Italia, ma faremo di tutto perché non diventi bruttissimo. (la repubblica)