La Cassazione complica il riconoscimento dell’attività giornalistica nelle case editrici

Uffici Stampa: non basta l’iscrizione all’Albo

ROMA – Con un’importante sentenza la sezione lavoro della Cassazione (presidente Umberto Berrino, relatore Angelo Cerulo) si è pronunciata per la prima volta sull’attività degli addetti agli uffici stampa delle case editrici, escludendo, dopo averla analiticamente valutata nel merito, la natura giornalistica del lavoro prestato da tre pubblicisti addetti all’ufficio stampa della società Arnoldo Mondadori per i quali l’Inpgi pretendeva, invece, il pagamento dei contributi previdenziali.

Pierluigi Roesler Franz

Per la prima volta la Cassazione ha praticamente creato un distinguo tra i giornalisti (nel caso pubblicisti) iscritti all’Albo che lavorano negli Uffici stampa delle Case editrici e i giornalisti iscritti all’Albo che lavorano invece negli Uffici stampa della pubblica amministrazione lasciando poi il giudice del lavoro libero di decidere, caso per caso, senza più dare peso all’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti.
Questa soluzione appare molto discutibile perché nella lunga e articolata motivazione della complessa sentenza che va letta con attenzione la Suprema Corte non ha tenuto minimamente conto della cronica lentezza della nostra giustizia civile. Nel caso dei tre pubblicisti che lavoravano negli uffici stampa della Mondadori sono passati una quindicina d’anni prima che la Cassazione abbia stabilito che la loro non era un’attività giornalistica e non bastava assolutamente l’iscrizione all’Albo! Ciò rimette anche in discussione il ruolo dell’Ordine dei Giornalisti e la sua stessa esistenza in mancanza di una precisa norma di legge che stabilisca cosa si intende per attività giornalistica.
Nella complessa ed articolata motivazione del provvedimento n. 24636 del 14 agosto 2023, i supremi giudici hanno sancito che: «L’attività degli addetti agli uffici stampa delle case editrici, cui non si applica la speciale disciplina introdotta dall’art. 9 della legge 7 giugno 2000 n. 150 per gli addetti agli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni, può essere qualificata come giornalistica solo quando essa, alla luce del suo concreto atteggiarsi, pur nella concorrente finalità promozionale che la ispira, si estrinsechi nella raccolta, nel commento o nell’elaborazione di notizie, ancorché non indirizzate direttamente al pubblico indifferenziato, e si configuri, perciò, come mediazione tra il fatto, di cui si acquisisce conoscenza, e la diffusione della notizia, caratterizzandosi per l’apporto soggettivo e creativo e per l’autonomia dell’informazione».
La Suprema Corte, seguendo sia le previsioni del contratto nazionale di lavoro giornalistico Fieg-Fnsi, sia la disciplina recata dalla legge 7 giugno 2000 n. 150, che regola l’attività degli addetti agli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni, ha così definitivamente dato ragione alla Mondadori, confermando la precedente decisione di appello che aveva ribaltato il primo verdetto del tribunale di Roma che nel respingere l’opposizione dell’azienda ad un’ingiunzione dell’Inpgi aveva valorizzato la natura giornalistica dell’attività dei dipendenti, tutti giornalisti pubblicisti iscritti all’albo, addetti all’ufficio stampa per il settore istituzionale, per il settore libri, per il settore periodici e dediti alla raccolta di dati, informazioni e notizie e all’elaborazione di comunicati stampa.
Gli “ermellini” del Palazzaccio di piazza Cavour a Roma hanno premesso che, in tema di lavoro giornalistico, l’obbligo d’iscrizione all’Inpgi postula due requisiti, tra loro concorrenti e non alternativi: anzitutto, l’iscrizione all’Albo dei giornalisti (elenco professionisti, elenco pubblicisti e/o registro praticanti) e, in secondo luogo, lo svolgimento di attività lavorativa riconducibile a quella professionale giornalistica presso il datore di lavoro chiamato a versare i contributi (Cassazione, sezione lavoro, 25 maggio 2021, n. 14391). Non rileva che il datore di lavoro sia un ente pubblico territoriale o un imprenditore. Requisito imprescindibile dell’obbligo d’iscrizione è che il datore di lavoro abbia instaurato un rapporto di lavoro subordinato con un soggetto che sia giornalista professionista o praticante giornalista e gli abbia assegnato mansioni di carattere giornalistico (Cass., sez. lav., 20 luglio 2007, n. 16147, ripresa anche da Corte costituzionale, sentenza n. 112 del 2020, punto 11 del Considerato in diritto). Né rileva, per escludere l’obbligo d’iscrizione all’Inpgi, l’applicazione di un contratto collettivo diverso da quello concernente il lavoro giornalistico.

La Corte di Cassazione al “Palazzaccio” di piazza Cavour a Roma (Foto Giornalisti Italia)

Occorre, dunque, aver riguardo all’attività concretamente svolta. L’iscrizione all’albo dei giornalisti, se costituisce presupposto indefettibile per rivendicare lo status professionale relativo, non preclude l’autonoma valutazione, da parte del giudice ordinario, di tale attività nella sua “realtà effettuale”, nell’ambito del rapporto dedotto in giudizio.
Per la Corte: «Il singolo rapporto di lavoro, difatti, può essere definito giornalistico soltanto se le prestazioni offerte dal lavoratore subordinato presentino in fatto i precisi e tipici connotati dell’attività giornalistica (in termini, già Cass., sez. lav., 9 aprile 1986, n. 2477). Il datore di lavoro, quale terzo non legittimato ad impugnare il provvedimento di iscrizione del dipendente all’albo dei giornalisti, può contestare la pretesa dell’Inpgi di conseguire il versamento dei contributi previdenziali e così far valere davanti al giudice ordinario, a tutela dei propri diritti, l’effettiva natura dell’attività svolta dal lavoratore (in tal senso, già Cass., sez. lav., 29 aprile 1997, n. 3716)».
La contestazione tra l’Inpgi e la Mondadori era, appunto, incentrata proprio sulla natura giornalistica delle prestazioni. A tal fine il giudice deve ponderare, anzitutto, la rilevanza pubblicistica dell’attività in questione, non scevra d’implicazioni su primari diritti di rango costituzionale (Cass., S.U., 29 luglio 2021, n. 21764, punto 11.5. delle “Ragioni della decisione”), e, in tale prospettiva, dovrà procedere alla disamina del concreto atteggiarsi dell’attività svolta.
Sulla scorta dei canoni di comune esperienza, che integrano l’ampia e duttile nozione desumibile dalla Costituzione, dalla legge ordinaria e dalle fonti negoziali, l’attività giornalistica si configura come un’opera tipicamente (anche se non esclusivamente) intellettuale. Sua cifra caratteristica è la creatività, l’originalità (Cass., sez. lav., 21 febbraio 1992, n. 2166). L’autonomia dell’informazione ne scolpisce lo statuto normativo (fra le molte, già Cass., sez. lav., 16 gennaio 1993, n. 536).
Per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione (da ultimo, Cass., S.U., 28 gennaio 2020, n. 1867), «l’attività giornalistica si estrinseca nella raccolta, nell’elaborazione o nel commento delle notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi d’informazione, nella mediazione tra il fatto di cui acquisisce la conoscenza e la diffusione di esso attraverso un messaggio (scritto, verbale, grafico o visivo), necessariamente influenzato dalla personale sensibilità e dalla particolare formazione culturale e ideologica (in tal senso, già Cass., sez. lav., 12 dicembre 1981, n. 6574).
Nel contesto di tale mediazione tra il fatto e la diffusione, il giornalista acquisisce la conoscenza dell’evento, ne valuta la rilevanza in relazione ai destinatari e confeziona il messaggio con apporto soggettivo e creativo (Cass., sez. lav., 29 agosto 2011, n. 17723).
Nell’accertamento demandato al giudice, rivestono rilievo la continuità o la periodicità del servizio, nel cui ambito il lavoro è utilizzato, l’attualità delle notizie e la tempestività dell’informazione, che costituiscono gli elementi distintivi rispetto ad altre professioni intellettuali e sono funzionali a sollecitare l’interesse dei cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli di attenzione per la loro novità (Cass., sez. lav., 22 novembre 2010, n. 23625, e 20 febbraio 1995, n. 1827).
Si può qualificare, pertanto, come giornalistica l’opera svolta in favore di editori di quotidiani e periodici, di agenzie d’informazione o di emittenti televisive, ove sia esplicata con energie prevalentemente intellettuali e si traduca nella raccolta, nell’elaborazione o nel commento della notizia destinata a formare oggetto di comunicazione di massa. Tale opera si distingue da quelle collaterali o ausiliarie per la creatività, ossia per la presenza, nella manifestazione del pensiero finalizzata all’informazione, di un apporto soggettivo e inventivo, secondo i criteri desumibili anche dall’art. 2575 cod. civ. e dall’art. 1 della legge 22 aprile 1941, n. 633, in materia di protezione delle opere dell’ingegno, letterarie e artistiche (Cass., sez. lav., 1° giugno 1998, n. 5370)».
Tali enunciazioni di principio sono state confermate e puntualizzate dalla Cassazione con riferimento all’attività degli addetti degli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni. Le sezioni unite civili della Suprema Corte con la sentenza n. 21764 del 29 luglio 2021 hanno affermato che l’attività svolta nell’ambito dell’ufficio stampa regolato dalla legge n. 150 del 2000, condizionata al possesso del titolo dell’iscrizione all’albo professionale e caratterizzata da un’area speciale di contrattazione con la partecipazione delle organizzazioni sindacali dei giornalisti, ha natura giornalistica e, di conseguenza, comporta l’iscrizione all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (Inpgi). Tale iscrizione ha portata generale e prescinde dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro e dal contratto collettivo applicabile al rapporto.
Nel rimeditare l’orientamento espresso in precedenza dalla sentenza della sezione lavoro n. 11543 del 15 giugno 2020, che disconosceva recisamente il carattere giornalistico dell’attività svolta dagli addetti agli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni, le sezioni unite hanno posto in risalto le specificità dell’attività d’informazione e di comunicazione svolta in tale ambito. Le scelte del legislatore s’ispirano all’idea «che l’attivazione di circuiti di informazione e comunicazione tra amministrazioni e cittadini è un aspetto irrinunciabile della democratizzazione dell’informazione» (punto 10.2. delle “Ragioni della decisione”) e istituiscono «un nuovo indispensabile strumento a disposizione delle pubbliche amministrazioni per sviluppare le loro relazioni con i cittadini, potenziare e armonizzare i flussi di informazioni al loro interno e concorrere ad affermare il diritto dei cittadini ad un’efficace comunicazione» (punto 10.4. delle “Ragioni della decisione”)».
In questa promozione della pubblicità e della trasparenza, valori inscindibilmente connessi con il buon andamento e con l’imparzialità tutelati dall’art. 97 Cost., d’importanza essenziale si dimostra il ruolo degli addetti agli uffici stampa, «figure deputate allo svolgimento di vera e propria attività giornalistica nel solco della tradizionale elaborazione di tale attività effettuata sulla base della legge n. 69 del 1963» (punto 10.6. delle “Ragioni della decisione”).
La legge n. 150 del 2000 ha, dunque, «delineato un modello di informazione che non vi è dubbio si ricolleghi al concetto di attività giornalistica come tracciato dalla Corte di legittimità (v. da ultimo, Cass., Sez. Un., n. 1867/2020 cit., secondo cui, alla luce di un’interpretazione letterale e sistematica, della legge n. 63 del 1969, nella parte in cui include il giornalista professionista e il pubblicista in uno stesso ordinamento, sottoponendoli agli stessi poteri e doveri disciplinari, la “professione di giornalista” è da intendersi come quell’attività “di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie attraverso gli organi di informazione, in cui il giornalista si pone quale mediatore intellettuale tra il fatto e la sua diffusione”» (il già menzionato punto 10.6. delle “Ragioni della decisione”).
L’addetto all’ufficio stampa non è obbligato a riportare solo quel che riferisce l’amministrazione di appartenenza, né deve edulcorare le notizie «per compiacere gli organi di vertice». È la professionalità del giornalista che orienterà, in ogni frangente, «la cernita di ciò che si deve e si può pubblicare e quello che invece non è necessario o non è consentito rendere pubblico», in ragione dei doveri di riservatezza che incombono sul giornalista, in quanto incardinato in una pubblica amministrazione (punto 10.7. delle “Ragioni della decisione”).
Nella specie, la natura giornalistica dell’attività è avvalorata «dalla formale istituzione di tali uffici, dai titoli richiesti per l’assegnazione agli stessi, dalla previsione di una contrattazione speciale con l’intervento delle organizzazioni rappresentative dei giornalisti, dalle classificazioni della contrattazione di comparto (in qualche modo riempitive del vuoto di un’area di contrattazione speciale non attuata)» (punto 11.4. delle “Ragioni della decisione”).
Né giova ribattere, in senso contrario, «che, come previsto dalla legge n. 150 del 2000, l’addetto all’ufficio stampa si interfacci con i “mezzi di comunicazione di massa, attraverso stampa, audiovisivi e strumenti telematici” e non direttamente con il pubblico indifferenziato, tale essendo per lo più anche l’attività delle agenzie di stampa che storicamente sono nate proprio per fornire informazioni ai giornali e fungono da fonti per i mass media» (il già richiamato punto 10.7. delle “Ragioni della decisione”).
Per la Cassazione «l’attività svolta dagli addetti all’ufficio stampa della Mondadori non può che essere valutata in coerenza con quanto sopra affermato. Di conseguenza è stato ritenuto che non sia sufficiente l’iscrizione degli addetti all’Albo dei giornalisti, ma occorre invece che il giudice valuti l’effettiva attività svolta soprattutto nel settore delle prestazioni degli addetti agli uffici stampa delle case editrici, in cui manca una trama di regole vincolanti, preordinate a bilanciare i contrapposti interessi». Infatti, «tale necessità di un apprezzamento circostanziato promana dal carattere mutevole del contesto in cui l’attività giornalistica si colloca, dell’evoluzione incessante della professione, che ne rende multiformi le caratteristiche e non consente d’imbrigliarle nella fissità di schemi prestabiliti. Se la concorrente finalità commerciale e la carenza della destinazione a un pubblico indifferenziato di per sé non si pongono in antitesi con la natura giornalistica dell’attività, che non presenta sempre e comunque le fattezze della “pura informazione”, indirizzata al vasto pubblico, è parimenti innegabile che non ogni attività prestata presso l’ufficio stampa di una casa editrice possa essere per ciò stesso qualificata come “ontologicamente” giornalistica. Tale inquadramento mostra di cristallizzare l’attività giornalistica in paradigmi egualmente unilaterali e aprioristici, disancorati da un plausibile riferimento empirico. Né, a sostegno d’un siffatto inquadramento, si può invocare la circostanza che, nel distinto e non comparabile ambito delle pubbliche amministrazioni, una legge speciale connoti come squisitamente giornalistica l’attività degli addetti e presidi lo svolgimento dei compiti affidati ai giornalisti con una pluralità di garanzie e di vincoli».
Decisiva si è rivelata la finalità commerciale che permea il lavoro prestato per le implicazioni che ne derivano in ordine ai tratti distintivi dell’attività giornalistica, così come sono stati ricostruiti dall’elaborazione della giurisprudenza: «In primo luogo, la pervasiva e totalizzante finalità commerciale già di per sé elide quell’autonomia dell’informazione, che è pietra angolare dell’attività giornalistica, e disvela l’eterogeneità di questa fattispecie rispetto all’attività degli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni, improntati a una finalità prettamente istituzionale (art. 9 della legge n. 150 del 2000). Tale finalità commerciale esclude quell’apporto creativo, quel coefficiente di originalità che rappresenta punto qualificante dell’attività giornalistica e che presiede alla ricerca delle notizie, al vaglio e alla diffusione delle stesse. La finalità meramente promozionale impedisce, in ultima analisi, di ravvisare, in concreto, nel nucleo dell’attività svolta, quella mediazione tra il fatto e la notizia, che assurge a caposaldo dell’attività giornalistica propriamente intesa, pur nelle sue cangianti manifestazioni». (giornalistitalia.it)

Pierluigi Roesler Franz

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