ROMA – Mai nelle passate guerre mondiali o regionali, vicine o lontane in tempi moderni, il giornalismo aveva pagato un prezzo così alto di vite come fin dalle prime settimane dell’invasione russa in Ucraina. Attentati in serie contro la libertà di stampa e che vengono raccontati, testimoniati e documentati giorno dopo giorno a Leopoli nel Santuario eretto davanti al Media Centre e dedicato ai coraggiosi inviati di ogni parte del mondo rimasti uccisi.
Una volta anche dai noi, fin dall’epoca fascista, i corrispondenti erano arruolati e inquadrati nelle truppe militari, oggi ribattezzati embedded, e relegati nelle retrovie dei combattimenti a costo di trasformarli in strumenti di propaganda come, stavolta, avviene senza esenzioni di sorta dalla parte russa.
Purtroppo, le cose sono cambiate, i fronti belligeranti si sono moltiplicati in tutto il Paese e i principali obiettivi degli attaccanti sono diventati le città, i quartieri centrali e periferici, i centri abitati colpiti da massicci bombardamenti a tappeto e da missili, seminando morte e terrore tra l’inerme popolazione civile, e dando la caccia all’uomo, agli innocenti, persino donne e bambini. Gli scampati e i sopravvissuti alle feroci scorrerie sono sfollati a milioni di profughi verso i paesi europei.
Per cui, gli inviati, i reporter, i cinefotoperatori, i digital reporter, gli informatori multimediali e dei social, con o senza tutele, protezioni di elmetti e giubbotti antiproiettili e sicurezze alle spalle, si sono dovuti cimentare spesso alla ventura e con sprezzo del pericolo nel territorio, correndo da un posto all’altro dove cadevano le bombe, o si sparava alla gente, o avanzavano le colonne di carri armati.
Cosicchè la tempesta bellica li ha investiti e colpiti senza scrupoli e riguardo per la loro missione al servizio dell’opinione pubblica e della verità ricercata sul campo con rarissimi precedenti in altri conflitti.
Il Santuario di Leopoli è un Tempio alla memoria del sacrificio degli informatori caduti per la causa dell’informazione raccolta e diffusa in presa diretta, minuto per minuto. I loro volti, le loro imprese professionali e i luoghi dove hanno trovato la morte sono rievocati con immagini, foto e filmati.
Inevitabilmente i morti più numerosi sono quelli dei colleghi ucraini. Il valore di uno di loro è stato salutato con un’onorificenza post mortem dallo stesso presidente Zelensky. Noto documentarista e fotografo Maks Levin, di 41 anni, è stato trucidato il 2 aprile a Vyshgorod. Il primo ucciso dai russi risale al 26 febbraio, il terzo giorno delle ostilità, Dealerbek Shakirov, che lavorava per il settimanale Around You a Kherson. E il 15 marzo sono stati uccisi la giornalista ucraina Alexandra Kuvshinova e il cameraman della Fox Pierre Zakrewski.
Fin dai primi giorni di guerra, si sono registrate perdite anche tra gli inviati stranieri, come il telecronista americano Brent Renaud ucciso a colpi di arma da fuoco il 13 marzo a Irpin. Aveva passato gli ultimi 20 anni a raccontare storie di umanità nei punti caldi del mondo dal terremoto di Haiti all’Iraq e l’Afghanistan. Morta anche Oksana Baulina, corrispondente russa dell’Indipendente The Insider. E il 24 marzo, a Lukianivka, sono stati rinvenuti i cadaveri di Serhiy Zayikovsky e Denys Kotenko.
Su questa prima guerra dominata da tecnologie sofisticate non solo con armi sempre più potenti e distruttive, ma anche sovvertita dalla radicale rivoluzione nel settore della comunicazione che ci piomba addosso polarizzata in dosi massicce dai social ad alto tasso di manipolazione da fakenews e trappole propagandistiche che ti fanno perdere la bussola dell’orientamento. I social sono la pancia della gente e se li insegui sei perduto. Un’immagine o un video diffusi su twitter possono scatenare un effetto a catena immediato, una forte ondata emotiva e indignata a prescindere dalla autenticità delle notizie. Attirano come una calamita la popolarità delle riprese amatoriali e le testimonianze dei citizen journalism. Già 2500 anni fa, quando le informazioni circolavano a passo di lumaca, il drammaturgo greco Eschilo sosteneva che “In guerra la verità è la prima vittima”.
Per questi motivi gli inviati doc che non solo rischiano la pelle ogni momento della loro giornata, ma debbono faticare il doppio e lavorare con gli occhi ben aperti per non prendere fregature dalla grancassa delle mistificazioni, non abboccare alla narrazione dominante e virale e non scontrarsi sebbene in buona fede con la verità dei fatti. Quasi tutti informatori molto giovani hanno dato prova di coraggio, consapevolezza e coscienza professionale. Mentre russi e anche ucraini se la cantano e se la suonano come pare loro, senza le cronache minuto per minuto di questi valorosi giornalisti sapremmo poco o nulla di quello che accade in questa guerra feroce che non risparmia nemmeno i bambini. Mentre la strategia comunicativa del presidente Zelensky si affida al dialogo in diretta con l’opinione pubblica nazionale e internazionale diffondendo messaggi sulla resistenza di una Nazione indomita e denunciando con montaggio di spessore professionale dei filmati di massacri, violenze ed orrori che gli arrivano dalle fonti più disparate via social o smartphone dai suoi connazionali terrorizzati in mezzo alle case distrutte piangendo i loro cari uccisi.
Viceversa Putin si barrica tra i suoi fidi e dietro un muro di silenzi e di menefreghismo verso il mondo reale delle morti e dei dolori di un popolo nato fratello, sbugiardando gli avversari con l’accusa di propagare falsità, imbrogli, finzioni, sceneggiate artefatte. Il suo finalino ripetuto a ritornello è sempre lo stesso: un badate a voi completato da minacce di ritorsione contro l’Occidente espansivo verso Est e aggressivo in cerca di guai atomici.
Nelle guerre del Novecento, era quasi impossibile ricevere notizie affidabili e non filtrate dalle censure militari sulle vittime e sulle operazioni al fronte. I più famosi corrispondenti della seconda guerra mondiale del calibro di Indro Montanelli, Curzio Malaparte, Dino Buzzati, con gli episodi bellici ricostruiti dai comandi a modo loro e magari enfatizzati (ai nostri tempi sarebbe anacronistico!) per ricostruire gli avvenimenti, abbondando in opinionismo acculturato con sapiente penna. Oggi la comunicazione più sofisticata e hackerizzata può diventare una micidiale arma da guerra. (giornalistitalia.it)
Romano Bartoloni
I GIORNALISTI UCCISI IN UCRAINA
26 febbraio, Kherson: Dealerbek Shakirov, Around You;
1 marzo, Kiev: Yevheniy Sakun, 49 anni, Tv channel Live;
2 marzo, Vasilkov: Sergey Pushchenko, 61 anni, Accademia Nazionale dei Giornalisti
4 marzo, Bucha: Zoreslav Zamojskij, 43 anni;
5 marzo, Yahidne: Roman Nezhyborets, TV channel Dytynets;
6 marzo, Mykolaiv: Viktor Dudar, 44 anni, Express;
6 marzo, Irpin: Pavlo Lee, 33 anni, Tv channel Dom
11 marzo, Mariupol: Viktor Didov, Sigma Tv;
13 marzo, Irpin: Brent Anthony Renaud, 51 anni, Time Studios;
14 marzo, Horenka: Pierre Zakrzewski, 55 anni, Fox News, e Oleksandra “Sasha” Kuvshynova, 24 anni, Ngo Krai;
18 marzo, Zaporizhzhia: Oleg Yakunin, Afisha.zp;
23 marzo, Popasna: Yuriy Oliynyk, 39 anni, Channel 24 e Zaxid.net;
23 marzo, Podolsky: Oksana Baulina, 42 anni, The Insider;
24 marzo, Lukianivka: Serhiy Zayikovsky, Plomin, e Denys Kotenko, 25 anni, addetto stampa Ministero degli affari dei Veterani Ucraini;
1 aprile, Vyshgorod: Maxim Levin, 41 anni, Lb;
2 aprile, Mariupol: Mantas Kvedaravicius, 45 anni, director, filmaker;
2 aprile, Melekino: Yevhen Bal, Unione Nazionale dei Giornalisti dell’Ucraina;
data imprecisata: Oleksandr Lytkin, dtp.kiev.ua;
data imprecisata: Lilia Humyanova;
data imprecisata: Alexander Kuvshinov.