ROMA – Una sentenza scarna, priva di argomentazioni ridondanti e mirata ai fatti, quella con cui la Corte d’Appello di Roma (Sez. 3^ penale, Pres. Mineo, Est. D’Antonio, sent. 9159/17) ha confermato la condanna di Augusto Minzolini a 4 mesi di reclusione per aver privato Tiziana Ferrario di ogni incarico e per averla lasciata forzosamente inoperosa per oltre 7 mesi. Soprattutto una sentenza che ha smontato pezzo per pezzo le difese dell’ex direttore del Tg1 e ci ha restituito con grande chiarezza ed un pizzico di ironia l’immagine di ciò che un direttore di testata deve e può fare, e di ciò che Minzolini all’epoca volutamente non fece.
Può un direttore di testata “spostare i dipendenti, nel rispetto delle leggi e delle persone”? Certo che sì. Sennonché, come afferma la Corte romana, quando Minzolini ha rimosso Tiziana Ferrario dalla conduzione e non le ha assegnato alcun incarico per oltre 7 mesi, non ha rispettato né la legge né tantomeno la persona. Qui, uno dei punti chiave della sentenza: l’esercizio dei poteri del direttore non può limitarsi alla privazione dell’incarico in atto, ma deve completarsi con l’assegnazione di altro incarico non meramente formale, ma concreto, reale ed equivalente per contenuti e responsabilità.
Elementi, questi ultimi, che la Corte romana ha escluso negli incarichi a Mosca e in Iran, prospettati a Tiziana Ferrario nel marzo 2010 e nell’ ottobre 2010: il primo perché risoltosi in una mera ipotesi di lavoro; il secondo, dopo sette mesi di nulla assoluto, perché di fatto impossibile. Incarichi che la Corte romana definisce senza mezzi termini e con la concretezza propria del Giudice Penale “una presa in giro”, ossia la prova provata del fatto che il provvedimento privativo era stato “affrettato, inopportuno, senza una preventiva programmazione sull’organico, dettato da esigenze e motivi del Minzolini che nulla avevano a che vedere con le esigenze di riorganizzazione, ringiovanimento, ecc”, e quindi un vero e proprio “atto di mortificazione” in danno di Tiziana Ferrario.
Non solo. In appello, come anche in I grado, Minzolini aveva tentato di sostenere che le scelte relative agli incarichi all’estero dovevano ascriversi ai capi redattori, cui era affidata la gestione quotidiana dell’informazione. Questa affermazione, che nelle intenzioni del Minzolini era funzionale ad escludere il ruolo ascrittogli di “padre padrone” del Tg1, non è sfuggita alla Corte romana che, pur non dubitando dei ruoli e delle mansioni dei cd. graduati, ha tuttavia significativamente ed ironicamente affermato che ciò “non esclude che, quando voglia, il Direttore di testata è loro sovraordinato”.
In realtà un direttore di testata non svolge le sue mansioni a fasi alterne, ma è sempre “responsabile” del lavoro della redazione, della sua organizzazione e dei provvedimenti che la riguardano, chiunque li prenda. Questo significa che il direttore non può pretendere di astrarsi dalla vita della redazione, né pilatescamente non sapere cosa vi accada, perché è sua competenza organizzare il lavoro, e garantire così un’informazione corretta. Quando, come nella specie, si tratta di organi di informazione pubblica, il direttore diviene, come ricorda la Corte romana, incaricato di pubblico servizio perché la sua scelta organizzativa “tocca direttamente l’interesse pubblico a una informazione corretta e completa”.
Cosa emerge, quindi, da questa sentenza? Che il direttore responsabile non è un qualsiasi dirigente d’azienda, è qualcosa di più. È il trait d’union tra editore e redazione e, al tempo stesso, il garante dell’autonomia della redazione dall’editore e da terzi; è colui che organizza il lavoro e si assume in prima persona la responsabilità dei suoi contenuti; è il primus inter pares che però ha poteri di proporre assunzioni e licenziamenti.
Un lavoro impossibile? Tutt’altro, ma a patto che la barra sia dritta sul rispetto delle regole, prima fra tutte la correttezza e la completezza dell’informazione.
Avv. Claudia Costantini
legale Studio d’Amati