ROMA – «Sussistono tutti i presupposti per l’affermazione della sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso, essendo stato accertato che Roberto Spada si avvalse della forza di intimidazione promanante dall’associazione malavitosa imperante sul territorio, nota come clan Spada, ben presente alla mente dei giornalisti e bene nota agli abitanti del luogo, tant’è che alla stessa si fece riferimento ripetutamente nel corso dell’intervista, come soggetto collettivo in grado di influenzare le decisioni politiche assunte nell’ambito del quartiere».
Lo scrivono i giudici della V sezione penale della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui il 13 novembre scorso hanno confermato la condanna a sei anni con il riconoscimento dell’aggravante del metodo mafioso per Roberto Spada per la testata al giornalista della trasmissione Rai “Nemo” Daniele Piervincenzi e l’aggressione dell’operatore Edoardo Anselmi avvenuta il 7 novembre 2017.
Piervincenzi e Anselmi vennero aggrediti di fronte alla palestra di Roberto Spada, a Ostia, durante un’intervista sulla campagna elettorale nel X Municipio. Avvicinato per alcune domande sui presunti rapporti con Casapound nel municipio di Ostia, sciolto dopo l’inchiesta su Mafia Capitale, Spada colpì il giornalista con una violenta testata che venne immortalata dalla telecamera.
Per l’aggressione il 18 giugno 2018, dopo l’inchiesta portata avanti dal pm della Dda Giovanni Musarò, Roberto Spada e Ruben Nelson Del Puerto sono stati condannati in primo grado a sei anni di reclusione per violenza privata e lesioni aggravate con il riconoscimento dell’aggravante mafiosa. Condanna confermata, poi, in Appello per Spada. Stralciata, invece, la posizione del braccio destro, Ruben Nelson Del Puerto, il cui processo è ancora in corso.
La Suprema Corte ha riconosciuto definitivamente come parte civile contro Roberto Spada sia l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, sia la Fnsi, assistiti dallo stesso legale avvocato Giulio Vasaturo. Spada dovrà, dunque, risarcire 1.800 euro ciascuno di parcelle legali al Cnog e alla Fnsi.
LA SENTENZA
Corte di Cassazione 5ª Sezione Penale Sentenza n. 6764 del 20 febbraio 2020 (Presidente Grazia Miccoli, relatore Giuseppe Riccardi)
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Spada Roberto, nato il 24/06/1975 a Roma avverso la sentenza del 7 dicembre 2018 della Corte di Appello di Roma
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Giuseppe Riccardi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Pasquale Fimiani, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
uditi i difensori delle parti civili, avv. Antonio Marino (per Piervincenzi e Anselmi), avv. Felicia D’Amico (Associazione Caponnetto), avv. Giulio Vasaturo (per Consiglio Nazionale Ordine Giornalisti, Federazione Nazionale Stampa Italiana, Libera, Associazione Nomi e Numeri contro le mafie), avv. Giorgio Pasquali (per Roma Capitale), avv. Luca Petrucci (per Regione Lazio), che hanno concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore del ricorrente, avv. Angelo Staniscia, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa il 07/12/2018 la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma del 18/06/2018 che aveva affermato la responsabilità di Spada Roberto e Alvez Del Puerto Ruben Nelson per i reati di lesioni personali aggravate di cui agli artt. 582, 583 n. 1, 585 cod. pen. (capo A) e violenza privata di cui all’art. 610 cpv. cod. pen. (capo B), aggravati dall’uso del metodo mafioso di cui all’art. 7 dl. 152/1991 (ora art. 416 bis.1 cod. pen.).
Secondo la ricostruzione dei fatti accertata dalle sentenze di merito, Spada Roberto, dopo che il giornalista Piervincenzi Daniele gli aveva rivolto alcune domande in ordine al sostegno palesato dallo Spada al partito Casapound in occasione delle consultazioni elettorali per il X Municipio di Roma (Ostia), improvvisamente lo colpiva con una violenta testata sul setto nasale, che gli cagionava una frattura pluriframmentaria guaribile in un tempo superiore a 40 giorni; nel contempo, Alvez Del Puerto – la cui posizione processuale è stata separata nel corso del giudizio di appello, in considerazione dell’accoglimento di una richiesta di rinvio dell’udienza –, che spalleggiava lo Spada, aggrediva, colpendolo con calci, pugni e schiaffi, Anselmi Edoardo, che, dopo essere caduto a terra, veniva ulteriormente colpito a calci da Spada Roberto (capo A).
Inoltre, Spada Roberto inseguiva Piervincenzi Daniele, colpendolo ripetutamente con un manganello, e proferendo in modo minaccioso la frase “sono due ore che stai qua”, e, unitamente ad Alvez Del Puerto, profferivano all’indirizzo di Piervincenzi e Anselmi frasi minacciose (“avete rotto il cazzo non vi fate più vedere qui, vi prendo la macchina e vedi che non la trovi più, annatevene”), così costringendoli ad interrompere l’intervista e ad allontanarsi velocemente dalla zona (capo B).
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Spada Roberto, Avv. Angelo Staniscia, deducendo tre motivi di ricorso, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con un primo motivo lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di motivare in ordine alle doglianze proposte con l’atto di appello a proposito dell’attendibilità dei collaboratori di giustizia, sostenendo che tali dichiarazioni fossero funzionali soltanto alla descrizione ed alla comprensione del contesto ambientale, ma che non fosse oggetto di verifica la “mafiosità del clan Spada”; tuttavia, tali dichiarazioni sarebbero state utilizzate ai fini della dimostrazione della sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso. Deduce, al riguardo, che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sarebbero sfornite di riscontri intrinseci ed estrinseci, come preteso dall’art. 192 comma 3 cod. proc. pen., avendo gli stessi manifestato la propria ostilità nei confronti della famiglia Spada, ed avendo reso dichiarazioni aspecifiche e generiche.
2.2. Con una seconda doglianza lamenta che con l’atto di appello era stata contestata la sussistenza del delitto di violenza privata di cui al capo B, in ragione dell’assorbimento nel delitto di lesioni; evidenzia che, mentre il Tribunale aveva individuato l’interruzione dell’intervista quale elemento costitutivo del delitto, la Corte di Appello, per superare le deduzioni relative al diniego dello Spada di sottoporsi all’intervista, ha individuato l’elemento costitutivo nel forzato allontanamento delle persone offese da Ostia. Nel caso in esame, comunque, la violenza privata sarebbe assorbita nel reato di lesioni, in quanto gli atti di violenza integrano essi stessi l’evento naturalistico del reato, il fatto unitario è rappresentato dalle percosse che hanno cagionato le lesioni e lo stesso allontanamento delle persone offese.
2.3. Con un terzo motivo deduce che l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/91 sia stata erroneamente affermata sulla base del sentimento di paura avvertito dalle persone offese, del comportamento tenuto dai presenti e del controllo del territorio manifestato dagli Spada: le persone offese avevano infatti riferito di non avere avuto paura di recarsi ad Ostia per intervistare Roberto Spada; inoltre, per il metodo mafioso rileva l’esistenza di un clima di terrore ab initio tale da distogliere chiunque dall’affrontare determinati soggetti; inoltre, il contenuto del filmato dimostra l’assenza totale di persone in strada al momento del fatto; infine, l’asserito controllo del territorio da parte dello Spada sarebbe stato desunto soltanto dalle dichiarazioni dei collaboratori. Premesso un richiamo agli approdi della giurisprudenza di legittimità, che ritiene non sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità organizzata, né la caratura mafiosa degli autori del fatto, occorrendo che questi si avvalgano della particolare efficacia intimidatrice derivante dall’esistenza concreta di un sodalizio mafioso, si afferma l’insussistenza dell’aggravante e l’inadeguatezza della motivazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è, nel suo complesso, infondato. Giova premettere che i motivi proposti concernono esclusivamente il reato di violenza privata contestato al capo B e la sussistenza dell’aggravante del c.d. metodo mafioso, non essendo state proposte doglianze nei confronti dell’affermazione di responsabilità per il reato di lesioni personali gravi contestate al capo A.
2. Il secondo motivo, che sotto il profilo logico merita di essere affrontato prioritariamente, è manifestamente infondato.
2.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe individuato un diverso “evento” del reato di violenza privata – l’allontanamento forzato delle persone offese, anziché l’interruzione dell’intervista in corso – per eludere le censure proposte dalla difesa con riferimento al diniego di Spada Roberto di sottoporsi all’intervista. La doglianza è manifestamente infondata, in quanto, premesso che la stessa imputazione di cui al capo B contestava la costrizione, non soltanto “ad interrompere l’intervista”, ma anche “ad allontanarsi velocemente dalla zona in cui si sono svolti i fatti”, la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, ha invece affrontato espressamente anche il profilo della costrizione ad interrompere l’intervista: con apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità, e dunque insindacabile in sede di legittimità, e aderente al granitico compendio probatorio acquisito – costituito, sul punto, non soltanto dalle convergenti dichiarazioni delle due persone offese, ma altresì dalla visione del filmato ripreso dall’operatore –, la sentenza impugnata ha evidenziato che l’intervista era in corso da almeno un’ora, e Spada Roberto aveva risposto alle domande rivoltegli, rifiutandosi di rispondere soltanto a quelle di carattere “politico” – reale e palesato obiettivo del servizio giornalistico in corso –, legate al sostegno assicurato dall’imputato alla formazione “Casapound”, che, alle ultime consultazioni elettorali amministrative svoltesi ad Ostia, aveva ottenuto un ragguardevole risultato del 18%. Sicché la repentina e contestuale aggressione ai danni del giornalista Piervincenzi e dell’operatore Anselmi, oltre a cagionare le lesioni contestate, ha costretto le persone offese ad interrompere l’intervista in corso e ad allontanarsi dal luogo ove si stava svolgendo l’intervista.
2.2. Sotto altro profilo il ricorrente lamenta il riconoscimento di un concorso di reati tra lesioni personali e violenza privata, sostenendo che, nel caso in esame, il fatto è stato unitario, ed è consistito nelle percosse che hanno determinato sia le lesioni che l’allontanamento delle persone. La tesi, oltre ad essere meramente reiterativa delle censure già proposte con l’atto di appello, e respinte dalla sentenza impugnata, sulla base di motivazioni con le quali il ricorrente ha omesso qualsivoglia confronto argomentativo, è manifestamente infondata.
2.2.1. Giova innanzitutto premettere, sotto il profilo sistematico, che l’art. 581, comma 2, cod. pen. sancisce il principio secondo cui, nelle fattispecie penali a base violenta, che prevedono la violenza come requisito esplicito (es. artt. 393, comma 2, 336 e 337, 610, 629 cod. pen.) o implicito (es. artt. 572, 575, 582, 630 cod. pen.), la violenza – nel cui concetto rientrano molteplici comportamenti che possono essere già di per sé reato (es. percosse, minacce, ecc.) – resta assorbita, sotto il profilo normativo, nelle altre fattispecie complesse solo allorquando sia contenuta nei limiti delle percosse; la violenza esulante dalla fattispecie di percosse assume, dunque, un’autonoma rilevanza penale, sotto il profilo della ulteriore qualificazione normativa. Oltre all’univoco indice normativo, che fonda il concorso di reati tra la violenza privata e le lesioni personali – per la plusvalenza di violenza rispetto alle percosse – sulla base di una interpretazione sistematica e letterale (in tal senso, Sez. 5, n. 9727 del 19/02/2019, R, Rv. 275621: “È configurabile il concorso formale tra il reato di violenza privata e quello di lesioni personali volontarie, non sussistendo tra le due fattispecie un rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen.”, anche sulla base dell’art. 581, comma secondo, cod. pen., “che esclude il concorso nel solo caso in cui la condotta violenta sia sussumibile nella fattispecie di percosse e non ove ricorrano più gravi fattispecie, come quella di lesioni personali”), il principio va altresì ribadito sulla base dell’ulteriore criterio della non omogeneità dei beni giuridici tutelati: tra il reato di violenza privata, di cui all’art. 610 cod. pen., e quello di lesioni personali volontarie, di cui all’art. 582 cod. pen., è configurabile il concorso formale, essendo diversi i beni giuridici tutelati: la libertà morale nel primo reato, e l’integrità fisica nel secondo (principio affermato da questa Corte anche nella fase cautelare del presente procedimento: Sez. 5, n. 21530 del 08/02/2018, Spada, Rv. 273024; nella fattispecie, la Corte ha escluso l’assorbimento del reato di violenza privata in quello di lesioni, precisando che le lesioni – una testata in faccia ad un cronista al fine di farlo allontanare dal luogo in cui si trovava il ricorrente – erano state inflitte per realizzare la violenza privata; analogamente, ex multis, Sez. 2, n. 17767 del 07/03/2017, Perilla, Rv. 269568).
2.2.2. Ciò posto, secondo la ricostruzione dei fatti accertata dalle sentenze di merito, Spada Roberto, mentre veniva intervistato da due giornalisti (dopo aver acconsentito a rispondere alle loro domande), irritato, ad un certo momento, per le domande rivoltegli e per l’incapacità, di cui si era reso conto, di volgere l’intervista a proprio favore, aveva colpito Piervincenzi con una violenta testata al volto e con un attrezzo che aveva in mano, mentre il complice – il coimputato Alvez Del Puerto, la cui posizione è stata separata – si accaniva, per lo stesso motivo, contro l’operatore Anselnni. Tanto, al fine di costringere i due a desistere dal rivolgergli le domande, evidentemente ritenute scomode, e ad allontanarsi immediatamente dal posto.
Tale dinamica, del resto, è stata fondata, dalla sentenza impugnata, anche con il richiamo delle parole pronunciate dallo stesso Spada, il quale, subito dopo aver colpito Piervincenzi con la testata, aveva intimato a quest’ultimo di “non farsi più vedere”, perché “avere rotto il cazzo, so tre ore, qua non ci dovete venì…annatevene”. Ebbene, in tale condotta sono stati correttamente ravvisati gli estremi della violenza privata, giacché, effettivamente, lo sviluppo dei fatti e le ragioni dell’aggressione, come dallo stesso odierno ricorrente esplicitate, integrano un comportamento rivolto a costringere i due intervistatori a fare qualcosa contro la loro volontà (sgombrare il campo e “non farsi più vedere”).
Del resto, l’interpretazione della Corte territoriale appare immune da censure anche sotto il profilo logico, giacché nessun motivo avrebbero avuto i due autori di inseguire le persone offese, dopo aver provocato loro lesioni (anche gravi a Piervincenzi, che sanguinava copiosamente), se non quello di rafforzare il comando insito nelle intimazioni proferite ed ottenere l’immediato allontanamento dei giornalisti, oltre che porre uno stop a domande sgradite.
La motivazione con cui è stata affermata la sussistenza del reato di violenza privata, dunque, è immune da censure sia sotto il profilo del concorso di reati con le lesioni personali, sia sotto il profilo della corretta qualificazione giuridica e della aderenza della ricostruzione dei fatti alla astratta fattispecie di cui all’art. 610 cod. pen., essendo state chiaramente evidenziate le forme della coercizione attuata dall’odierno ricorrente e le conseguenze sulla sfera psichica delle vittime, costrette ad un comportamento che, altrimenti, non avrebbero tenuto. Del resto, va ribadita, secondo quanto già evidenziato da questa Corte nell’esame del ricorso in sede cautelare (Sez. 5, n. 21530 del 08/02/2018, Spada, § 1), l’erroneità della tesi del ricorrente nella parte in cui pretende di distinguere tra “evento” del reato e “conseguenze” della condotta, non avvedendosi che le conseguenze della condotta rappresentano, dal punto di vista giuridico, proprio l’evento del reato, quando si tratti delle conseguenze tipizzate dalla norma incriminatrice e volute dall’agente come effetto della propria condotta.
Non è possibile, dunque, sostenere che la violenza privata resta assorbita dal reato di lesioni, poiché le lesioni sono state inflitte proprio per realizzare la violenza privata, sicché concorrono con questa.
Va, infine, evidenziato che la tesi secondo cui, per aversi concorso di reati, la condotta di cui all’art. 610 cod. pen. avrebbe dovuto rappresentare un quid pluris rispetto al fatto con cui si esprime la violenza, è manifestamente infondata: se il necessario quid pluris non ricorre, poiché la condotta violenta, nell’assunto del ricorrente, è stata unica, giova rammentare che l’art. 81, comma 1, cod. pen. disciplina appunto l’ipotesi del concorso formale di reati, che viene in rilievo allorquando l’agente “con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge”; se, al contrario, la deduzione deve essere intesa nel senso che, oltre all’aggressione, non vi sarebbe stata una condotta ulteriore di costrizione tale da indurre le persone offese ad allontanarsi, va invece osservato che la Corte territoriale ha esattamente ricostruito la dinamica dei fatti, e, sulla base di un accertamento di fatto immune da censure, e dunque insindacabile in sede di legittimità, ha enucleato due condotte, distinte anche cronologicamente, sebbene poste in essere nel medesimo contesto temporale: l’aggressione al giornalista ed all’operatore, che ha cagionato loro le lesioni personali accertate, e la costrizione ad allontanarsi dal luogo.
Va dunque chiarito, in altri termini, che la contestualità spazio-temporale delle condotte – di aggressione e di costrizione – non è idonea ad elidere la qualificazione giuridica multipla dei fatti, che, sulla base della pacifica interpretazione delle norme penali che vengono in rilievo, delinea un concorso – formale o materiale, a seconda che la condotta sia, sotto il profilo naturalistico, unica o multipla – di reati tra lesioni personali e violenza privata.
3. Il primo ed il terzo motivo concernono l’aggravante di cui all’art. 7 dl. 152/1991 (ora art. 416 bis.1 cod. pen.).
3.1. Con il primo motivo si lamenta un’omessa motivazione in relazione alle censure proposte con l’atto di appello nei confronti della credibilità dei collaboratori di giustizia. La doglianza è, innanzitutto, inammissibile, essendo del tutto generica ed aspecifica, in quanto limitata ad una contestazione assertiva ed omnicomprensiva, senza l’indicazione né dei collaboratori ritenuti non credibili, né dei contenuti delle dichiarazioni asseritamente inattendibili, né della loro decisività. Al riguardo, è consolidato il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, la censura di omessa valutazione da parte del giudice dell’appello dei motivi articolati con l’atto di gravame onera il ricorrente della necessità di specificare il contenuto dell’impugnazione e la decisívità del motivo negletto al fine di consentire l’autonoma individuazione delle questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l’atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C, Rv. 27585302; Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, Perna, Rv. 267723); sicché è inammissibile, per genericità del motivo, il ricorso per cassazione che, denunciando il difetto di motivazione della sentenza di appello per omesso o manifestamente illogico o contraddittorio confronto con le ragioni esposte dal primo giudice a sostegno della decisione integralmente riformata, non proceda ad autonoma critica indicando, specificamente e con illustrazione delle ragioni della decisività, i passaggi della sentenza di primo grado ignorati o confrontati in modo manifestamente illogico o contraddittorio (Sez. 6, n. 5879 del 09/01/2013, Delle Grottaglie, Rv. 254243).
Le doglianze sono altresì manifestamente infondate, in quanto correttamente la Corte territoriale ha evidenziato che l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/1991 è stata contestata nella sua dimensione “oggettiva” del “metodo mafioso”, e non nella dimensione “soggettiva” della finalità di agevolazione di un sodalizio mafioso; sicché le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono state valutate – in misura, peraltro, del tutto marginale rispetto alla ricostruzione dei fatti rilevanti per l’affermazione dell’aggravante del metodo mafioso – ai limiti fini dell’esistenza del “contesto ambientale” nel cui ambito si sono svolti i fatti, e non certo per verificare la “mafiosità” del clan Spada e l’intraneità ad esso, in ruolo apicale, di Roberto Spada – oggetto di un distinto processo, la cui concomitante celebrazione per la discussione ha determinato il rinvio dell’udienza del 16/09/2019 dinanzi a questa Corte, e all’esito del quale l’odierno ricorrente è stato condannato all’ergastolo sia per l’art. 416 bis cod. pen. sia per un duplice omicidio aggravato dall’art. 7 dl. 152/1991.
Come meglio si dirà, l’aggravante riconosciuta nei confronti di Spada Roberto nel presente procedimento è quella “oggettiva” del c.d. “metodo mafioso”, non già quella “soggettiva” del fine di agevolazione di un sodalizio mafioso, che, al contrario, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di una associazione mafiosa, implica necessariamente la prova dell’esistenza reale a non semplicemente supposta di essa (Sez. 6, n. 1738 del 14/11/2018, dep. 2019, Mancuso, Rv. 274842); e la ricostruzione del “contesto ambientale”, attraverso l’escussione dei collaboratori di giustizia, è stata funzionale esclusivamente a focalizzare la circostanza che il servizio giornalistico del Piervincenzi era diretto ad un approfondimento di una notizia di interesse pubblico, ovvero che una formazione politica di estrema destra avesse ottenuto, alle elezioni amministrative svoltesi ad Ostia, un significativo successo, e che Roberto Spada, ritenuto rappresentante del “noto clan Spada di Ostia”, avesse contribuito con pubbliche dichiarazioni, anche sui social network, a tale consenso.
3.2. Per i medesimi motivi è stata rigettata la richiesta, avanzata dal difensore del ricorrente nel corso della discussione all’udienza del 13/11/2019, di rinviare la deliberazione all’esito della decisione delle Sezioni Unite sull’art. 7 dl. 152/1991.
È infatti noto che la questione rimessa dalla Sez. 2, con ordinanza n. 40846 del 10/09/2019 (dep. il 04/10/2019) concernesse la questione “Se l’aggravante speciale già prevista dall’art. 7, d.l. 13 maggio 1991 n. 152, ed oggi inserita nell’art. 416 bis. I cod. pen., che prevede l’aumento di pena quando la condotta tipica sia consumata “al fine di” agevolare l’attività delle associazioni mafiose, abbia natura “oggettiva” concernendo le modalità dell’azione, ovvero abbia natura “soggettiva” concernendo la direzione della volontà”. Questione che, nel frattempo decisa dalle Sezioni Unite all’udienza del 19/12/2019 nel senso della natura soggettiva, evidentemente non ha alcun rilievo ai fini della decisione del ricorso di Spada Roberto, che concerne l’aggravante “oggettiva” del metodo mafioso, e non quella “soggettiva” della finalità di agevolazione.
3.3. Il terzo motivo, con cui il ricorrente contesta la sussistenza dei requisiti dell’aggravante, ed in particolare del sentimento di paura delle persone offese, del comportamento omertoso e del controllo del territorio, sostenendo che non siano state accertate condotte di effettiva utilizzazione del metodo mafioso, è nel suo complesso infondato. Invero, oltre ad essere inammissibile nella parte in cui propone doglianze non consentite in sede di legittimità, sollecitando la Corte ad una rivalutazione del merito, senza confrontarsi concretamente con la motivazione della sentenza impugnata, il motivo è infondato nella parte in cui sostiene l’insussistenza dei requisiti dell’aggravante.
3.3.1. Al riguardo, va innanzitutto rammentato che avvalersi del metodo mafioso, ovvero –secondo la dizione dell’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv., con modificazioni, dalla legge 203 del 12 luglio 1991 – “delle condizioni previste dall’art. 416/bis cod. pen.” (è questa la contestazione mossa, nello specifico, a Spada) significa avvalersi della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.
Tale aggravante è stata inserita nell’ordinamento per contrastare le forme di criminalità promananti da soggetti in grado di intimidire e coartare le vittime – che sono forzate finanche ad accontentare “spontaneamente” il proprio aggressore – non tanto per la propria fama criminale, ma, in particolar modo, per quella che proviene loro dal contesto delinquenziale in cui si muovono, perché idoneo a suscitare paura di rappresaglie ad opera di complici, affiliati e accoliti. Tanto, sul presupposto che la capacità di resistenza della vittima scema man mano che acquisisce la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un soggetto che ha alle spalle un manipolo di soggetti disposti a sostenerlo, aiutarlo e vendicarlo, sicché anche l’aiuto che può prestargli lo Stato si appalesa inadeguato rispetto agli scopi della difesa. Invero, la “ratio” della disposizione di cui all’art. 7 del dl. 152/91 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando “metodi mafiosi” o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino “da mafiosi”, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi, quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata (Sez. 6, n. 582 del 19/02/1998, Primasso, Rv. 210405).
Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, dunque, la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, prevista dall’art. 7 dl. 13 maggio 1991, n. 152, non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione ex art. 416-bis, cod. pen., essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso; essa è pertanto configurabile con riferimento ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, nonché nel caso di reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo (Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271103); in tal senso, è stato ribadito che la contestazione dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso” non presuppone necessariamente un’associazione di tipo mafioso costituita, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa (Sez. 2, n. 36431 del 02/07/2019, Bruzzese, Rv. 277033, in una fattispecie relativa a rapina ai danni di un furgone portavalori in cui l’aggravante è stata ravvisata nel tratto paramilitare usato per la commissione del delitto, nella attenta pianificazione dello stesso, nelle modalità brutali di realizzazione, nell’impiego di uomini e mezzi, nell’uso di armi con esplosione di colpi e nel compimento dell’atto in pochi minuti, comprovanti una professionalità criminale propria di chi appartiene a gruppi organizzati o di chi da tali gruppi, operanti nel luogo di commissione del reato, sia stato autorizzato; ex multis, Sez. 2, n. 49090 del 04/12/2015, Maccariello, Rv. 265515; Sez. 1, n. 5881 del 04/11/2011, dep. 2012, Giampà, Rv. 251830); basta, cioè, che l’associazione appaia sullo sfondo, perché evocata dall’agente, sicché la vittima sia spinta ad adeguarsi al volere dell’aggressore – o ad abbandonare ogni velleità di difesa – per timore di più gravi conseguenze.
3.3.2. Ciò posto, la Corte di Appello ha confermato la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso, evidenziando che, ai fini dell’applicazione della stessa, nella dimensione “oggettiva”, non occorre l’esistenza di un’associazione per delinquere di tipo mafioso (non ancora accertata, almeno in via definitiva, in sede giurisdizionale), bensì l’avvalimento delle condizioni di cui all’art. 416 bis cod. pen.; e, in tal senso, ha individuato gli indici fattuali del metodo mafioso nella presenza, durante l’intera intervista, di un “guardaspalle” (il coimputato Alvez Del Puerto) di Roberto Spada, nella simultanea aggressione al giornalista ed all’operatore, nella perpetrazione dell’aggressione in pieno giorno dinanzi alla palestra, rivendicando la potestà di controllare il territorio e dunque di “cacciare” chi non è gradito, nell’evocazione dell’intervento di soggetti terzi, che avrebbero danneggiato o fatto sparire l’auto dei giornalisti, e nel contesto omertoso.
La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei criteri interpretativi richiamati allorché ha evidenziato che Roberto Spada: si è avvalso, nel corso dell’intervista, in particolare nell’epilogo violento della stessa, di un soggetto (Alvez Del Puerto) che gli faceva da “guardaspalle”; ha evocato, in più di un’occasione, l’intervento di soggetti estranei in grado di danneggiare a Piervincenzi l’auto (“guarda che già t’hanno graffiata all’altra parte”) o, addirittura, di sottrargliela (“mo tocca vedé quanno vai via se trovi la macchina”); ha approfittato del clima di omertà diffuso in loco per infierire sulle due persone offese, le quali furono dissuase da ogni tentativo di difesa proprio dall’ostilità percepita nei loro confronti (gli involontari spettatori si affrettarono a chiudere le finestre; nessuno si offrì di aiutarli, pur vedendoli sanguinare; addirittura, qualcuno manifestò compiacimento per l’accaduto).
In particolare, ha sottolineato la Corte territoriale, la presenza del “guardaspalle” assume una maggior carica intimidatrice, non soltanto perché indice di maggior pericolosità, essendo idonea a suscitare paura di possibili ritorsioni provenienti da terzi, ma anche per la concreta dinamica dell’aggressione, avvenuta simultaneamente da parte sia di Spada Roberto sia di Alvez Del Puerto; non appena il primo aveva colpito con una violenta testata il Piervincenzi, infatti, il secondo aveva contestualmente colpito l’operatore Anselmi, senza neppure necessità di ricevere un ordine, o quanto meno un cenno da parte dello Spada.
Inoltre, l’avvalimento della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento ed omertà che ne deriva è stato correttamente individuato in ulteriori indici: l’affermazione del “controllo del territorio”, espressa non soltanto con le minacce indirette al destino dell’autovettura del Piervincenzi, ma anche con le frasi con cui Spada Roberto, rincorrendo le due persone offese con un manganello, dopo la violenta aggressione, intimava loro di andare via dal suo territorio e di non tornarvi (“hai rotto il cazzo, te ne devi annà”; “Ievateve dal cazzo, non ce dovete tornà qua, questa è la fine che fate se venite qua”); espressioni che sono un chiaro indice di un controllo del territorio e di persone non presenti, in grado di intervenire per ulteriormente accanirsi sulle persone o sul veicolo delle vittime, e tali da avere ingenerato un vero e proprio terrore nel Piervincenzi e nell’Anselmi, i quali, nonostante le gravi condizioni del primo, che perdeva copiosamente sangue dal naso in conseguenza della testata, decisero di non recarsi presso il vicino ospedale Grassi in Ostia, in quanto erano a conoscenza di “infiltrazioni” del clan Spada anche all’interno del nosocomio; sicché, per preservare la propria incolumità, nonché la disponibilità “del girato” (delle riprese filmate dall’operatore, ed attestanti la violenta aggressione sub aa), preferirono giungere a Roma per farsi curare all’Ospedale S. Eugenio.
Ancora, ad evidenziare il clima di omertà e la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, è stato valorizzato il senso di impunità dimostrato dall’odierno ricorrente, che, lungi dal cautelarsi, perpetrando (come pure avrebbe agevolmente potuto) l’aggressione all’interno della propria palestra, dinanzi alla quale si stava svolgendo l’intervista, al riparo da possibili testimoni, non ha avuto alcuna ritrosìa ad avventarsi violentemente contro i due giornalisti in mezzo alla strada, in pieno giorno, ripreso anche da una telecamera, brandendo in maniera ostentata un manganello ed urlando che quello era il suo territorio.
E, del resto, il clima di omertà è stato scolpito non soltanto dal richiamo all’assordante silenzio delle persone presenti, all’omertà delle persone che frequentavano la palestra dello Spada, alle repentine chiusure di porte e finestre, ma altresì dalla frase minacciosa rivolta alle vittime da un giovane di passaggio: “questo è quello che vi succede a Nuova Ostia, se venite qui a rompere le palle”. Va, infine, aggiunto che il clima di omertà è stato ancor più sottolineato dalle dichiarazioni rese dallo stesso Spada Roberto, che, nonostante la visione del filmato avesse chiarito il ruolo di “guardaspalle” svolto da Alvez Del Puerto e la sua partecipazione attiva all’aggressione, ha, del tutto inverosimilmente (secondo la Corte territoriale, “con spudoratezza ed arroganza”), affermato di non sapere chi fosse l’altra persona che aveva partecipato con lui all’aggressione; anche dopo che il complice era stato individuato ed arrestato.
Sussistono, dunque, tutti i presupposti per l’affermazione della sussistenza dell’aggravante del “metodo mafioso”, essendo stato accertato che Spada Roberto si avvalse, nell’occasione, della forza di intimidazione promanante dall’associazione malavitosa imperante sul territorio, nota come clan Spada, ben presente alla mente dei giornalisti e ben nota agli abitanti del luogo, tant’è che alla stessa si fece riferimento, ripetutamente, nel corso dell’intervista, come soggetto collettivo in grado di influenzare le decisioni politiche assunte nell’ambito del quartiere (era stato proprio questo, del resto, il motivo che aveva indotto i giornalisti a ricercare il contatto col prevenuto e a intervistarlo sul punto).
Non rileva, quindi, che l’esistenza di un “clan Spada” non sia stata ancora accertata (almeno in via definitiva) giudizialmente, né che sia indimostrata, allo stato, la partecipazione di Spada Roberto allo stesso (anche se l’esistenza del clan e la partecipazione allo stesso del ricorrente sono state affermate da più di un collaboratore di giustizia): ciò che conta, infatti, per la sussistenza dell’aggravante, è, come già evidenziato, e come correttamente ritenuto dai giudici di merito, che un’associazione malavitosa – avente la caratteristiche di cui all’art. 416 bis cod. pen. – sia stata evocata nella specie e che della stessa l’imputato si sia consapevolmente avvalso per la perpetrazione dei reati a lui ascritti.
Sul punto, va dunque ribadito il principio già affermato da questa Corte a proposito del ricorso proposto da Spada Roberto in fase cautelare, secondo cui, per la configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 dl. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203), non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa (Sez. 5, n. 21530 del 08/02/2018, Spada, Rv. 273025, nella fattispecie relativa alle violente lesioni inferte ad un giornalista da un personaggio notoriamente malavitoso, che, nel rifiutare di essere intervistato, aggrediva il cronista con una testata sul volto, si avvaleva di un guardaspalle, pronunciava frasi intimidatorie che evocavano l’intervento di altri soggetti al fine di danneggiare la vettura dello stesso, in contesto omertoso caratterizzato non solo dal disinteresse dei passanti, ma anche dal compiacimento per l’accaduto da parte di alcuni presenti all’aggressione).
3.3.3. Va, infine, chiarito che la sentenza della Sez. 6, n. 14249 del 01/03/2017, Barbieri, richiamata nel ricorso, e particolarmente valorizzata dal difensore nel corso della discussione, non appare in alcun modo eterogenea rispetto ai consolidati insegnamenti di questa Corte, ai quali la sentenza impugnata si è conformata. La decisione invocata, infatti, nel precisare che “i caratteri mafiosi del metodo utilizzato per commettere un delitto non possono essere desunti dalla mera reazione delle vittime alla condotta tenuta dall’imputato, ma devono concretizzarsi in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale evocata”, ha ritenuto che l’ordinanza cautelare oggetto di sindacato non si fosse conformata al predetto parametro ermeneutico, essendosi limitata a valorizzare un’espressione che, “pur connotata da un’indubbia valenza intimidatoria, non può di per sé sola dirsi oggettivamente idonea ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale”, in assenza di una “colorazione mafiosa” della stessa, “che avrebbe potuto stimare sussistente soltanto ove supportato da ulteriori evidenze oggettive, quali – sempre ragionando in via ipotetica ed esemplificando – eventuali ulteriori espressioni minacciose spese in danno delle persone offese, il contesto e le modalità della condotta ed, in particolare, l’atteggiamento e la gestualità dell’agente al momento dei fatti, il suo coinvolgimento in un procedimento per criminalità organizzata, i suoi rapporti intimi con esponenti della consorteria criminale e, dunque, l’eventuale conoscenza da parte delle vittime della vicinanza del prevenuto rispetto ai locali clan mafiosi, il contesto ambientale nel quale avvenivano i fatti e le infiltrazioni mafiose nel tessuto economico sociale e qualunque ulteriore elemento atto a conferire al comportamento l’idoneità ad evocare, con efficienza causale, l’esistenza di un sodalizio ed incutere un timore aggiuntivo di una ritorsione mafiosa”. Elementi di “colorazione mafiosa” che, al contrario, e per quanto diffusamente illustrato, sono emersi nella fattispecie in esame.
4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, che liquida in favore di Daniele Piervincenzi e Edoardo Anselmi nella misura di euro 2500,00, oltre accessori come per legge, e nella misura di euro 1800,00, oltre accessori come per legge, in favore di ciascuna delle altre parti civili costituite.
P.Q.M .
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, che liquida in favore di Daniele Piervincenzi e Edoardo Anselmi nella misura di euro 2500,00, oltre accessori come per legge, e nella misura di euro 1800,00, oltre accessori come per legge, in favore di ciascuna delle altre parti civili costituite.
Così deciso in Roma il 13 novembre 2019
Depositata in cancelleria il 20 febbraio 2020