TORINO – Un amarcord in Subalpina: un documentario di quaranta minuti, intitolato “Quei pericolosi anni da cronista” e realizzato da Monica Gallo e Alessandro Valabrega, ha consentito ai giornalisti degli anni 1970-1980 di raccontare se stessi e il proprio lavoro. Iniziativa messa a punto congiuntamente dal Centro studi sul giornalismo Gino Pestelli, presieduto da Giorgio Levi, e dal sindacato piemontese con il segretario Stefano Tallia. In sala, nella meravigliosa cornice di Palazzo Ceriana, che ospita il Circolo della Stampa di Torino, il segretario della Fnsi Raffaele Lorusso e il presidente della Casagit Daniele Cerrato.
Un autentico tuffo nel passato, costruito attraverso una serie di interviste con Salvatore Tropea, primo direttore del fascicolo piemontese di Repubblica, Gian Paolo Boetti, caporedattore della Stampa, Claudio Giacchino e Claudio Cerasuolo, storiche “firme” della giudiziaria, Giorgio Viglino che era, invece, famoso per le cronache sportive.
E poi: Diego Novelli, giornalista dell’Unità ma anche sindaco di Torino, Stefanella Campana, passata dall’Avvenire a Stampa Sera e Vincenzo Tessandori, cronista (prima) e inviato speciale (poi) della Stampa, autore di migliaia di articoli e di un saggio che sta in tutte le biografie sul terrorismo: “Br, imputazione banda armata”.
Due i filoni d’indagine della ricerca documentale. Per un verso, gli autori hanno concentrato l’attenzione sul lavoro degli operatori dell’informazione. “Si andava in giro con taccuino e matita per prendere appunti”.
“Occorreva tenersi in tasca una manciata di gettoni perché i cellulari non esistevano e il telefono stava appeso su una parete di un bar”.
“Per recapitare le fotografie al giornale era necessario preparare un ‘fuori sacco’ da consegnare al capotreno perché lo consegnasse al fattorino alla stazione centrale”. E poi le ore passate davanti alla Questura per conoscere le “ultime” sull’ultimo delitto. I caroselli alle portinerie dei Pronto Soccorso degli ospedali per recuperare gli estremi degli incidenti stradali. La ricerca delle “testine” dei morti nella casa dei familiari, con un rispetto approssimativo della privacy e, persino, della buona educazione.
Ma dovendo riassumere con una parola: occorreva essere testimoni di quanto accadeva. Il sentito dire non apparteneva a quella informazione.
Il secondo tema d’indagine ha riguardato più specificatamente gli anni del terrorismo che hanno investito Torino in modo brutale. Su quel terreno, i giornalistici sono trovati impegnati più che in ogni altra tematica.
Paura? Chi dice di non aver vissuto mesi tranquilli. Chi, anche se sommessamente, confessa di aver acquistato una pistola e di essere andato al tiro a segno per esercitarsi. Chi, spavaldamente, nega di aver avuto preoccupazioni particolari.
“Anche se – ricorda Tessandori – uscendo di casa, un giorno che pioveva, mi vedo davanti due con la pistola. Ho pensato che toccava a me. Invece, stavano puntando uno spacciatore che mi stava passando dietro. Però il sangue è rimasto gelato per qualche po’”.
Un parallelo con i cronisti di oggi? È tutto telematico, le notizie non si fondono più nel piombo ma corrono nell’aria e sembra che non sia più necessario correre sul luogo delle cronache perché arriva tutto con Internet. Un miglioramento, certo, che però corre il rischio di fare smarrire il senso della professione.
Raffaele Lorusso, commentando, ha infatti evidenziato che, di per sé, “il giornalismo è sempre quello”. Possono cambiare i sistemi di produzione ma il valore dell’informazione deve mantenersi immutato. “Semmai, adesso, si è perso il contatto con le regole e il rispetto delle regole”.
Quanto al terrorismo, “i giornalisti hanno sempre rischiato in prima persona e rischiano tutt’ora. Ci sono 22 colleghi sotto scorta per le minacce ricevute dalle varie mafie e organizzazioni criminali. Ma va notato che in Italia lo Stato protegge i cronisti. Nel resto del mondo non avviene. Altrove i morti li contano e li piangono… ma dopo”. (giornalistitalia.it)