ROMA – Soltanto un giornalista, proprio perché ricopre un ruolo connaturato all’attività professionalmente svolta di «cane da guardia della democrazia», può in via esclusiva invocare l’illegittimità della pena detentiva nel caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa, come affermato nell’ordinanza n. 132 emessa, nove mesi fa, dalla Corte Costituzionale e nella successiva decisione n. 26509 del 2020 della Cassazione penale. In tutti gli altri casi, invece, chi é condannato per diffamazione può rischiare il carcere.
Con questa motivazione, depositata ieri, la quinta sezione penale della Suprema Corte ha reso definitiva la condanna a 9 mesi di reclusione dell’avvocato siciliano Giuseppe Arnone, ex ambientalista e noto esponente politico di Agrigento, per aver diffamato il docente catanese Salvatore Sciacca, considerato un luminare in tema di ambiente, inquinamento e argomenti connessi.
I supremi giudici, con ordinanza n. 10.285 del 17 marzo 2021, hanno dichiarato inammissibile il ricorso del legale e confermato così definitivamente il precedente verdetto della Corte d’appello di Palermo con la condanna al pagamento delle spese processuali e al risarcimento danni in favore del professor Sciacca da quantificare in sede civile.
Il processo penale era scaturito da una querela per diffamazione nei confronti dell’avvocato Arnone per aver pesantemente contestato una perizia redatta dal professor Sciacca sullo stato di salute di quella zona di mare. Il luminare, su incarico della Procura della Repubblica di Agrigento, doveva in particolare verificare se le acque fossero ancora balneabili e se i rifiuti liquidi provenienti dall’impianto fognario di S. Leone Villaggio Peruzzo venissero smaltiti a norma di legge e fossero nocivi per le popolazioni.
L’avvocato Arnone aveva, quindi, fatto affiggere un manifesto murale e distribuito vari volantini in cui accusava il professor Sciacca di avere messo insieme cose serie e «una serie di grandi minchiate frutto di ignoranza, superficialità, pressapochismo se non palese malafede». (giornalistitalia.it)
Pierluigi Franz
LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE
Corte di Cassazione 5ª Sezione Penale
sentenza n. 10285 del 17 marzo 2021
(Presidente Carlo Zaza, relatore Paola Borrelli)
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Arnone Giuseppe nato ad Agrigento il 6 febbraio 1960 avverso la sentenza del 11 marzo 2019 della Corte di Appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Paola Borrelli;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale Ferdinando Lignola, che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
lette le conclusioni dell’avv. Luca Sagneri, per la parte civile, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, depositando altresì nota spese.
RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza oggetto di ricorso per cassazione è stata pronunziata dalla Corte di appello di Palermo ed ha confermato quella emessa dal Giudice monocratico del Tribunale di Agrigento nei confronti di Giuseppe Arnone, condannato in primo grado a nove mesi di reclusione ed al risarcimento del danno per avere diffamato Salvatore Sciacca, consulente tecnico incaricato dalla Procura della Repubblica di Agrigento di accertare la regolarità dell’iter tecnico-amministrativo in materia di inquinamento delle acque e di tutela della salute pubblica seguito fino al 2008 dal Comune di Agrigento e dall’azienda Girgenti acque e di verificare se i rifiuti liquidi provenienti dall’impianto fognario di S. Leone Villaggio Peruzzo venissero smaltiti a norma di legge e fossero nocivi per le popolazioni. L’addebito, per Arnone, è di avere affisso un manifesto murale e di aver distribuito volantini in cui: si accusava lo Sciacca di avere messo insieme cose serie e «una serie di grandi minchiate frutto di ignoranza, superficialità, pressapochismo se non palese malafede» dopo aver retoricamente chiesto conto di una serie di affermazioni contenute nella consulenza – del pari definite “minchiate” – concludeva «basta con le minchiate del Prof. Sciacca», si doleva altresì che i giornali, attingendo alla menzionata consulenza, avessero, a loro volta, riportato «boiate o gran minchiate».
L’imputato è stato condannato alla pena di nove mesi di reclusione, riconosciuta l’aggravante dell’utilizzo di un mezzo di pubblicità e la recidiva reiterata e specifica, ed al risarcimento del danno nei confronti della persona offesa costituita parte civile.
2. Contro la sentenza anzidetta, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, ricorso affidato a quattro motivi, che il ricorrente ha fatto precedere da diversi paragrafi – denominati:
– «premessa propedeutica all’illustrazione dei motivi di impugnazione» (in cui si segnala che le frasi più dirette erano rivolte al Procuratore della Repubblica di Agrigento, reo di avere diffuso notizie ai giornali, che la vis critica era rivolta nei confronti dell’enfatizzazione giornalistica e che le aggettivazioni non riguardano lo Sciacca, con il quale si stava anche per raggiungere un accordo);
– «comunicazione preliminare» (in cui si rappresentava che, in dibattimento, lo Sciacca aveva ammesso gli errori, che imputato e persona offesa avevano convenuto circa il fatto che il mare di Agrigento non fosse inquinato e che la persona offesa non aveva rimesso la querela solo per le esose pretese del difensore della persona offesa; Arnone voleva solo collaborare con l’autorità inquirente,
– «prima osservazione», «seconda osservazione», «terza osservazione», «quarta osservazione».
– «prime conclusioni alle superiori osservazioni».
In tali paragrafi, la parte svolge diverse osservazioni circa i fatti – sostanziali e processuali – alla base della vicenda giudiziaria odierna, ma convoglia, poi, le vere e proprie censure nei motivi di ricorso, di seguito sintetizzati nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione di legge e vizio di motivazione per violazione degli artt. 595 cod. pen. e 21 Cost. e si dirige verso il ritenuto superamento del requisito della continenza, giacché il bilanciamento di interessi va operato in relazione a quelli in gioco, ai fatti concreti di valenza collettiva ed all’utilità per la collettività in un ordinamento democratico. Arnone è uno dei più importanti esponenti politici di Agrigento, molto impegnato nella tutela dell’ambiente rispetto alle notizie false diffuse dai giornali, che avevano stigmatizzato il mare di Agrigento come non balneabile; ciò attingendo alla consulenza Sciacca, il quale, in dibattimento, aveva ammesso gli errori che risiedevano nelle sue valutazioni.
2.2. Il secondo motivo di ricorso denunzia vizio di motivazione anche in violazione dell’art. 595 cod. pen. in relazione all’art. 21 Cost. La Corte di merito avrebbe erroneamente fatto coincidere il superamento del requisito della continenza con la circostanza che Arnone aveva evidenziato gli errori commessi da Sciacca. Sarebbe errata la proposizione della Corte territoriale secondo cui la vicenda esula da un confronto politico perché la persona offesa è un consulente della Procura della Repubblica, dal momento che il ricorrente aveva agito, da uomo politico, quando aveva appreso dai giornali – cui qualcuno li aveva forniti – gli esiti della consulenza Sciacca ancorché coperta da segreto investigativo e piena di inesattezze, reagendo per ripristinare la verità dei fatti. Sciacca aveva ammesso di avere utilizzato, all’interno della consulenza, dei “sentito dire”.
Emblematico dell’errore di Sciacca sarebbe il fatto che egli aveva attribuito la mancata realizzazione di un impianto di depurazione alle diatribe tra i progettisti e le associazioni ambientaliste, mentre l’impianto era stato sequestrato perché illegale, anche per il coinvolgimento della mafia. Il termine «colossale minchiata» a proposito della notizia che, con i pennelli a mare, scaricavano le fogne di 50.000 persone, era riferito non già a Sciacca, ma a chi gli aveva fornito la notizia. Il ricorrente aveva chiesto di essere convocato dalla Procura della Repubblica per chiarire i fatti ed approfondire le verità che pure la relazione di consulenza conteneva.
2.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione perché, in occasione della prima udienza dinanzi alla Corte di appello, l’allora difensore del prevenuto – l’avv. Daniela Principato – aveva presentato tempestiva e documentata istanza di rinvio per concomitante impegno professionale, istanza che era stata ingiustamente disattesa.
2.4. Il quarto ed ultimo motivo di ricorso investe – denunziando vizio di motivazione e violazione degli artt. 595 cod. pen. e 21 Cost. – la conferma del trattamento sanzionatorio di nove mesi di reclusione, non condizionalmente sospeso, statuizione in contrasto con i principi di questa Corte ed arricchiti dalla Cedu con la sentenza Sallusti.
3. Il difensore dell’imputato ha presentato un motivo aggiunto, con cui denunzia violazione di legge e vizio di motivazione quanto all’inflizione della pena detentiva, richiamando l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 132 del 2020 e la sentenza di questa sezione n. 26509 del 2020. A seguire, il ricorrente ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 595 cod. pen. nella parte in cui prevede la pena della reclusione, per violazione dell’art. 10 della Cedu, citando la sentenza della Corte Cedu Sallusti contro Italia.
4. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha sostenuto la certa offensività delle espressioni adoperate, ma ha altresì evidenziato che dette frasi devono essere collocate nell’ambito di un’azione di denunzia politico-ambientalista. Avrebbe errato la sentenza di primo grado nell’escludere la collocazione politica dell’azione dell’imputato ed avrebbe sbagliato la Corte territoriale, che ha mancato di occuparsi di quest’ultimo aspetto e della verità della notizia, elementi che, se fossero stati accertati, avrebbero reso più elastico il limite della continenza. A seguire, il Procuratore generale cita giurisprudenza della Corte edu circa la necessità di distinguere tra fatti e giudizi di valore e segnala che la critica mossa dal prevenuto era diretta non già alla persona dello Sciacca, ma all’attività svolta nell’ambito di una delicata funzione pubblica.
5. Il difensore di parte civile, nelle sue conclusioni scritte, ha dissentito rispetto alle argomentazioni del Procuratore generale. In primo luogo, ha rimarcato che l’imputato non aveva mai documentato, a dispetto del lungo evolversi dell’istruttoria dibattimentale, la verità delle accuse circa la falsità della consulenza Sciacca. Anzi, nel corso del processo di primo grado, si era portata avanti l’offensiva diffamatoria nei confronti della persona offesa, offensiva che era proseguita anche con l’appello, laddove era stato colpito, con insinuazioni offensive, anche il Giudice di prime cure. Le conclusioni del Procuratore generale vorrebbero condurre ad una rivalutazione di merito, così come il ricorso per cassazione, che è altresì generico quanto alla verità del fatto, mai puntualmente sostenuta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
1. Per ragioni di priorità logico-giuridica, va affrontato per primo il terzo motivo di ricorso, che lamenta il mancato rinvio in occasione della prima udienza dinanzi alla Corte di appello, allorché l’allora difensore del prevenuto – l’avv. Daniela Principato – aveva presentato istanza di rinvio per concomitante impegno professionale, istanza che, secondo il ricorrente, era stata ingiustamente disattesa. Orbene, va innanzitutto osservato che il motivo di ricorso è generico, giacché non chiarisce ove risiederebbe il vizio del provvedimento assunto dalla Corte di merito allorché rigettò l’istanza di rinvio. A prescindere da questa notazione, giova osservare che comunque la doglianza è manifestamente infondata, dal momento che la decisione della Corte di appello a proposito della mozione difensiva in parola si presenta ineccepibile. A quest’ultimo riguardo, va osservato che la questione posta è di ordine processuale, sicché questa Corte è giudice dei presupposti della decisione, sulla quale esercita il proprio controllo, quale che sia il ragionamento esibito per giustificarla; con la conseguenza che il Giudice di legittimità, in presenza di una censura di carattere processuale, / qualora ve ne sia la necessità, può prescindere dalla motivazione addotta dal giudice a quo e, anche accedendo agli atti, deve valutare la correttezza in diritto della decisione adottata, quand’anche non correttamente giustificata o giustificata solo a posteriori (Sez. 5, n. 19970 del 15 marzo 2019, Girardi, Rv. 275636; Sez. 5, n. 17979 del 5 marzo 2013, Iamonte e altri, Rv. 255515; in termini, Sez. 5, n. 15124 del 19 marzo 2002, Ranieri FG ed altri, Rv. 221322).
Ciò detto, la verifica diretta del Collegio sull’istanza di rinvio e sul relativo provvedimento adottato conduce a sancire la correttezza della decisione della Corte territoriale. Ed invero, come insegnano le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 4909 del 18 dicembre 2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262912), l’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire, ai sensi dell’art. 420-ter, comma quinto, cod. proc. pen., a condizione che il difensore:
a) prospetti l’impedimento non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni;
b) indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione nel diverso processo;
c) rappresenti l’assenza in detto procedimento di altro co-difensore che possa validamente difendere l’imputato;
d) rappresenti l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen. sia nel processo a cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio.
Tanto puntualizzato, il Collegio deve rilevare che l’istanza non rispettava tutti i canoni individuati nella decisione sopra ricordata, sicché la Corte di appello ha correttamente evidenziato la mancata indicazione delle ragioni circa l’impossibilità di avvalersi di un sostituto processuale, nonché la carenza circa le ragioni per cui il concomitante impegno processuale dell’avv. Principato dovesse prevalere rispetto a quello del processo a carico di Arnone; non va taciuto, poi, che la Corte di merito ha altresì valorizzato, quale parametro che avrebbe dovuto condurre a privilegiare la presenza del professionista nel presente procedimento, la risalenza dei fatti a carico dell’odierno imputato.
2. L’inammissibilità del ricorso concerne, come anticipato, anche il profilo dell’impugnativa – condensato nei motivi primo e secondo – che avversa la decisione di conferma del giudizio di penale responsabilità dell’imputato.
2.1. Va ricordato che, a lume del capo di imputazione, il prevenuto, nel suo scritto, accusava lo Sciacca di avere messo insieme cose serie e «una serie di grandi minchiate frutto di ignoranza, superficialità, pressappochismo se non palese malafede» dopo aver retoricamente chiesto conto di una serie di affermazioni contenute nella consulenza del pari definite “minchiate” – concludeva «basta con le minchiate del Prof. Sciacca», si doleva altresì che i giornali, attingendo alla menzionata consulenza, avessero, a loro volta, riportato «boiate o gran minchiate». La Corte di merito, nel rigettare l’appello dell’imputato, ha posto l’accento sul tema della mancanza di continenza delle espressioni adoperate, rimarcando il linguaggio «inutilmente triviale e in alcun modo necessario rispetto all’esercizio di una legittima critica».
2.2. Orbene, la decisione della Corte di appello si sottrae appieno alle censure di parte. In primo luogo, il Collegio deve osservare che l’affermazione secondo cui l’imputato è un esponente politico non trova riscontro nelle sentenze di merito, né tale dato di fatto è oggetto di specificazione o allegazione nel ricorso; nella sentenza di primo grado, peraltro, proprio nell’escludere la riconducibilità delle opinioni dell’Arnone all’esercizio del diritto di critica politica, il Tribunale ha concentrato la propria attenzione non già sull’imputato, ma sulla persona offesa, evidenziando come Sciacca non fosse un esponente politico, ma solo un professore universitario nominato consulente tecnico del pubblico ministero. Orbene, dati i limiti dello scrutinio di legittimità, questa Corte non può attingere ad altri elementi che non siano quelli evincibili dalle sentenze di merito e dalle allegazioni di parte – naturalmente, ove ammissibili – sicché il punto di partenza nel vagliare la correttezza dell’esclusione della scriminante non può essere quello dell’esercizio del diritto di critica politica.
Ne consegue che il requisito della continenza va riguardato nella sua declinazione generale. Ebbene, in linea teorica, si rammenta che, secondo un approccio ermeneutico consolidato di questa Corte, che il Collegio condivide, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti e immotivatamente aggressivi dell’altrui reputazione, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato ed al concetto da esprimere (Sez. 5, n. 32027 del 23 marzo 2018, Maffioletti, Rv. 273573; Sez. 5, n. 37397 del 24 giugno 2016, C., Rv. 267866; Sez. 5, n. 31669 del 14 aprile 2015, Marcialis, Rv. 264442).
Nel caso di specie, deve dirsi che la ripetuta definizione delle affermazioni del Prof. Sciacca all’interno della consulenza come «minchiate» ed il ricollegare queste ultime «ad ignoranza, superficialità, pressapochismo se non palese malafede» sono forme espressive che esulano da un affiato critico rientrante nel legittimo esercizio del diritto di contrapporre le proprie opinioni a quelle del soggetto criticato, trascendendo, piuttosto, in argumenta ad hominem; argomenti pesantemente infamanti, a maggior ragione laddove paventano non solo l’inettitudine professionale della persona offesa quale accademico, ma finanche una sua malafede nello svolgimento della delicata funzione ausiliaria a quella del pubblico ministero.
L’esercizio della critica nei confronti dell’operato tecnico della persona offesa sarebbe potuta passare per una censura delle affermazioni contenute nella consulenza e nell’evidenziazione della loro inesattezza o radicale erroneità, piuttosto che trascendere nelle definizioni adoperate, che lanciano sulla persona offesa e sulle sue competenze professionali un generale discredito.
2.3. Un’ulteriore riflessione si impone, per esigenze di completezza. Pur avendo escluso che la vicenda possa essere collocata nel contesto di una critica politica – come sopra precisato – preme sottolineare che il tenore delle aggettivazioni dell’attività del Prof. Sciacca finirebbe per esulare anche dai più elastici limiti dell’esercizio del diritto di critica politica, laddove la giurisprudenza di questa Corte esclude pur sempre la continenza laddove si sia in presenza non già di un dissenso motivato espresso in termini misurati e necessari, bensì in un attacco personale lesivo della dignità morale ed intellettuale della persona (Sez. 5, n. 46132 del 13 giugno 2014, Polverini, Rv. 262184; Sez. 5, n. 8824 del 1 dicembre 2010, dep. 2011, Morelli, Rv. 250218; Sez. 5, n. 31096 del 4 marzo 2009, Spartà, Rv. 244811).
2.4. Quanto alle restanti argomentazioni sviluppate nei motivi in esame, le censure della parte indulgono sulla ricostruzione della vicenda fattuale su cui si innestavano gli accertamenti della Procura della Repubblica di Agrigento e del Prof. Sciacca, pretendendo da questa Corte un vaglio di merito che è estraneo allo scrutinio di legittimità e che prescinde dal nucleo della regiudicanda, che è non già quella di valutare l’operato del consulente Sciacca, ma, come sopra precisato, quello di accertare la continenza degli enunciati adoperati per criticarlo.
3. Il quarto motivo di ricorso – che denunzia vizio di motivazione e violazione degli artt. 595 cod. pen. e 21 Cost. ed investe la conferma del trattamento sanzionatorio di nove mesi di reclusione, non condizionalmente sospeso, sostenendone il conflitto con i principi di questa Corte, come arricchiti dalla Cedu con la sentenza Sallusti – è manifestamente infondato. Il tema che il ricorrente pone ed i principi che l’impugnativa evoca, infatti, attengono precipuamente alla diffamazione a mezzo stampa, svolta da coloro che svolgono professionalmente l’attività di giornalista. Come ricostruito in Sez. 5, n. 26509 del 9 luglio 2020, Carchidi, Rv. 279468, il tema dell’illegittimità costituzionale della disposizione che prevede la pena detentiva nel caso di diffamazione a mezzo stampa è stato portato all’attenzione della Corte costituzionale che, con l’ordinanza n. 132 del 2020, ha rinviato la decisione al 22 giugno 2021, spiegando che il rinvio si è imposto – nell’ottica di una leale collaborazione istituzionale – in attesa dell’evoluzione dei progetti di legge dedicati alla revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa, che risultano allo stato in corso di esame avanti alle Camere.
Tanto precisato, occorre tuttavia sottolineare che tutte le considerazioni svolte dalla Consulta sono state sviluppate con specifico riferimento alla diffamazione a mezzo stampa ed alla previsione, anche per quest’ultima, della pena detentiva, nell’ottica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost in relazione all’art. 10 della Cedu.
Del pari la giurisprudenza convenzionale evocata nell’ordinanza in parola – ivi compresa la sentenza 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia citata dal ricorrente – concerne l’attività giornalistica, inquadrando la libertà di stampa come irrinunciabile presidio per l’attuazione di un sistema democratico, che garantisce, da un lato, la libertà di espressione del giornalista e, dall’altro, il diritto all’informazione dei cittadini, assicurato dal pluralismo delle fonti informative. Ne consegue che tale direttrice ermeneutica non è utilmente praticabile rispetto all’attività di un soggetto che non svolga l’attività di giornalista e che non abbia quel ruolo, connaturato all’attività professionalmente svolta, di “cane da guardia della democrazia”, come la Corte Edu definisce l’attività giornalistica; ne discende ulteriormente che sia il quarto motivo di ricorso, sia quello aggiunto nella parte in cui dubita della legittimità costituzionale – per violazione dell’art. 10 Cedu – dello statuto sanzionatorio della diffamazione, sono manifestamente infondati.
4. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. (come modificato ex. I. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13 giugno 2000 n. 186).
All’esito del ricorso consegue, altresì, la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nella presente fase dalla parte civile, che si liquidano in euro 3500,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 3.500, oltre accessori di legge. (giornalistitalia.it)