Volto dell’Ansa in Senato, licenziata in un lampo: continua il ping pong in tribunale

Simonetta Dezi, un caso allucinante

Simonetta Dezi

ROMA – È l’Ansa, ma si comporta come la Stefàni (l’agenzia di stampa mussoliniana). Lo abbiamo già denunciato, ma la situazione non evolve. Anzi.
È l’allucinante storia di una giornalista che paga col licenziamento (a causa ancora in corso) la sua battaglia per il riconoscimento del lavoro che svolge da anni, con unanime riconoscimento di professionalità, serietà, impegno.
Nell’Italia che ha smantellato il diritto del lavoro, la vicenda di Simonetta Dezi è una sirena d’allarme per tutti, non solo per i giornalisti.
La consideravano ormai il volto dell’Ansa in Senato. Tra i pochi giornalisti stabilmente insediati nella Camera alta, meno frequentata di Montecitorio e di Palazzo Chigi dai cronisti parlamentari. Ma ora la più importante agenzia di stampa italiana, che da tempo vive principalmente di abbonamenti da parte di governo, parlamento e pubbliche amministrazioni, – quindi dovrebbe avere qualche responsabilità sociale in più – la licenzia, con un inaccettabile provvedimento che, oltre a mortificare la professionalità della giornalista, appare inopportuno, considerato l’iter giudiziario ancora in corso, e preoccupante per il drastico cambio di rotta della politica aziendale che mina la serenità dei giornalisti (specie dei molti precari) e costituisce un serio pericolo per la destrutturazione del lavoro organizzato e contrattualmente regolamentato.
Insomma, nessuno si sarebbe mai aspettato un atteggiamento simile dall’Ansa, la principale agenzia di stampa italiana fondata il 15 gennaio 1945, a guerra mondiale ancora in corso, dalle ceneri della Stefàni, la storica agenzia di stampa, fondata nel 1853, trasformata da Benito Mussolini in voce ufficiale del fascismo.
La giornalista licenziata si chiama Simonetta Dezi, professionista dal 13 marzo 1998, trascorsi nel settimanale Avvenimenti e nel quotidiano Ultime Notizie, dal 2000 all’Ansa, partendo con contratti co.co.co. per seguire il settore Sanità in Parlamento, alternati con contratti a tempo determinato, fino all’assunzione come articolo 1 a tempo indeterminato (part time) imposta dal giudice nel 2011 dopo una vertenza di lavoro iniziata nel 2007. Per circa due anni è stata in forza alla redazione fotografica; poi è passata alla redazione politica, per seguire i lavori del Senato (nell’ultimo anno unica redattrice dell’Ansa stabilmente a Palazzo Madama).
Un lavoro svolto con apprezzamento unanime da parte dei parlamentari, dei colleghi e dell’azienda che, nel febbraio 2019, per regolarizzare il rapporto di lavoro, da ormai cinque anni di esclusivo carattere politico-parlamentare, e per consentirne l’iscrizione all’Associazione della stampa parlamentare, ha novato il rapporto di lavoro trasformando il part time da orizzontale (riduzione dell’orario di lavoro quotidiano) in verticale (riduzione dei giorni di lavoro settimanali), consentendo l’applicazione dell’art. 7 del Contratto nazionale di lavoro giornalistico.
Nel frattempo proseguiva l’iter giudiziario, con una sentenza di appello che confermava quella di primo grado (quindi l’assunzione della Dezi). L’Ansa, tuttavia, ricorreva in Cassazione, lamentando che il giudice di appello le avesse negato di produrre un documento a suo dire “decisivo” per l’esito della causa (documento che peraltro i legali dell’Ansa non avevano prodotto in primo grado, nonostante fosse stato richiesto).
La Cassazione, nello scorso agosto, ha accolto il ricorso aziendale ed ha cassato la sentenza di appello, rinviando il giudizio ad altra corte di appello. Poche settimane dopo (giusto il tempo di sfruttarla fino in fondo in periodo di ferie estive), il 2 ottobre, l’Ansa ha licenziato Simonetta Dezi.
Dezi è stata, tra l’altro, componente del Comitato di Redazione di Ultime Notizie ed è stata candidata al recente congresso di Stampa Romana. Senza contare che è stata direttore dell’Agenda Coscioni e che per l’Ansa ha lasciato l’associazione radicale e la direzione del bimestrale.
Dura ed immediata era stata, ai primi di ottobre, la presa di posizione dell’Associazione Stampa Romana, che aveva espresso “piena solidarietà e forte sostegno alla collega Simonetta Dezi licenziata dall’Ansa” ed aveva allargato il tiro all’inaccettabile condizione di precarietà in cui la maggiore agenzia di stampa italiana mantiene un alto numero di giornalisti. (Giuseppe Mazzarino – giornalistitalia.it)

Stampa Romana (3 ottobre 2019): “Comportamento aggressivo e contraddittorio”

“La collega da venti anni lavorava per l’agenzia di stampa. È stata assunta nel 2011 dopo una causa di lavoro. Si è occupata da anni dell’attività parlamentare in Senato, ruolo riconosciuto dall’azienda nel febbraio scorso con l’articolo 7”. Così, l’Associazione Stampa Romana si schiera al fianco della giornalista Simonetta Dezi ricordando che “nel frattempo la stessa azienda non ha interrotto il percorso giudiziario e oggi, forte della decisione della Cassazione che ha rinviato in appello la causa di lavoro, licenzia la collega”.
“Ci chiediamo però – denuncia Stampa Romana – se una agenzia, vincitrice di bando pubblico, finanziata anche dallo Stato, possa avere un comportamento così aggressivo e contraddittorio nei confronti di una collega completamente inserita nell’organico della testata come dimostra la novazione del suo contratto”.

Così Simonetta Dezi ricostruisce la sua vicenda ed il suo stato d’animo (sul sito di Stampa Romana):

Dovevo dargli retta quando ha provato a convincermi che un contratto di collaborazione giornalistica equivale ad un articolo 1. Ho ancora nelle orecchie la sua voce: “Non sono tempi di vertenze, ti facciamo un altro co.co.co, è uguale… La Casagit? Te la paghi…”. Poi la frase fatale:
“Tanto tu la causa non te la puoi permettere, sono cose che vanno per le lunghe…”.
Una sfida che non ho saputo ignorare: ero e voglio, ostinatamente e contro ogni evidenza, credere che nel nostro paese il lavoro continui ad essere un diritto tutelato dalla Costituzione.
Se avessi ascoltato quel vicedirettore però, ora sarei almeno nel bacino dei giornalisti precari a navigare tra un contrattino e l’altro. Invece a 55 anni, dopo 16 anni passati a scrivere con passione per la stessa testata e dopo una battaglia nei tribunali che dura da oltre 12 anni, mi ritrovo disoccupata, in attesa di un nuovo appello che stabilisca se posso ritornare al posto di lavoro conquistato con tanta tenacia. La Giustizia italiana non è ancora in grado di darmi una risposta certa sul mio passato, presente e futuro all’interno dell’Ansa, la principale agenzia di stampa italiana, dalla quale, nel frattempo, senza nessuna considerazione per i tanti anni di serio impegno sono stata licenziata. E’ prevalsa la logica editoriale che imperversa in questi brutti tempi: togliersi di mezzo chiunque appena se ne presenti l’occasione.
A costo di diventare noiosa voglio spiegare perché sono convita di avere ragione.
La chiave di tutto sono quei primi sette anni, dal 2000 al 2007, in cui ho ininterrottamente lavorato per l’Ansa tra co.co.co e ben cinque contratti a tempo determinato (29 mesi in tutto).
Sette anni pieni durante i quali ho seguito la politica sanitaria in Senato, ho fatto la rassegna stampa per la redazione Interni, ho seguito conferenze stampa e convegni lavorando perlopiù dalla sala stampa del Senato o dalla redazione Interni. La mia era un appartenenza di fatto a cui mancava solo il riconoscimento contrattuale. Concordavo le ferie come gli altri colleghi e durante le mie due maternità sono stata sostituita proprio come un qualsiasi articolo 1. “Tieni duro” mi dicevano “che prima o poi ti sistemiamo”. Ma il tempo passava e la regolarizzazione non arrivava mai.
Non ero solo io a volerla: anche per l’Inpgi l’Ansa doveva mettere in regola la giornalista Simonetta Dezi.
Nel 2008, dunque, a distanza di poco tempo vengono avviati due procedimenti giudiziari, uno di mia iniziativa e l’altro, appunto, da parte dell’Inpgi. Entrambe le sentenze in primo grado sono a me favorevoli sebbene per motivi opposti: il primo giudice non riconosce la subordinazione di quei sette anni, ma stabilisce la mia assunzione perché l’azienda non presenta il documento di messa in sicurezza sul lavoro (ex dl 626 del ’94) necessario per stipulare contratti a termine quindi, a suo parere, il contratto deve essere inteso come a tempo indeterminato; il giudice della vertenza aperta dall’Inpgi invece, per lo stesso periodo, riconosce la subordinazione e chiede il versamento dei contributi.
Grazie alla prima sentenza, nel 2011 entro a tutti gli effetti nella “grande famiglia Ansa”, vengo assegnata alla redazione fotografica a scrivere didascalie sotto le foto. Pur di lavorare all’Ansa rinuncio al ruolo di dirigente radicale e lascio anche l’incarico di direttore del bimestrale Agenda Coscioni che nell’attesa dell’esito della causa mi sono guadagnata.
Dopo un paio di anni dall’assunzione cambia la mia posizione professionale dentro l’Ansa: vengo spostata al politico per seguire i lavori del Senato, mi viene fatta una novazione di contratto per regolarizzare il mio lavoro in Parlamento, mi viene data la tessera di stampa parlamentare in virtù della mansione che svolgo e di fatto divento la “faccia” dell’Ansa a palazzo Madama.
Anche le vicende legali proseguono. La sentenza di appello della causa dell’Inpgi conferma il primo grado e invita l’azienda a pagare i contributi. Invece nella causa da me avviata gli avvocati dell’Ansa dicono, a sorpresa, di avere il famoso documento di messa in sicurezza, la cui assenza era stata decisiva per la mia assunzione. Ma anche la sentenza di appello è per me favorevole: il giudice sostiene che in questo grado non può tenerne conto: rimango assunta. Tutto viene ribaltato però, quando la Cassazione, nove anni dopo il primo grado, decide che questo benedetto documento deve poter essere valutato. Pertanto annulla la sentenza in base alla quale sono stata assunta e stabilisce che bisognerà rifare un nuovo appello. In quattro e quattr’otto sono licenziata.
Nel tardo pomeriggio del 2 ottobre scorso mentre sono alla mia postazione della sala stampa di palazzo Madama e scrivo una notizia, l’ennesima della giornata, un dirigente dell’amministrazione mi annuncia per telefono che non sono più una dipendente Ansa. Completo la notizia che stavo scrivendo. Non mi va di lasciarla a metà. Poi premo il tasto invio e la mando al desk della mia (ex) redazione. Spengo il computer e vado via.
Dalla direzione, ad oggi, nemmeno una parola per un saluto formale.
Aveva ragione quel vicedirettore, le cause di lavoro durano tanto e sono un lusso. Non solo sotto il profilo economico, aggiungo io. Oggi per sopportare il colpo di spugna dato senza esitazione alla mia figura professionale ho bisogno di nervi saldi e della consapevolezza che non sono le competenze professionali ad essere messe in discussione. Però, aveva ragione lui, crea meno problemi a tutti rimanere precari a vita”. (Simonetta Dezi)

 

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