Pino Nano (Tgr Rai): “L’Olivetti 22 che gli prestai per l’esame di stato non avrà prezzo”

“Simone Camilli è un esempio per tutti noi”

La tessera dell’Ordine di Simone Camilli (foto Ansa)

La tessera dell’Ordine di Simone Camilli (foto Ansa)

ROMA – Di Simone Camilli, oltre che questa foto che lo riprende nel pieno delle sue funzioni di cronista producer per diverse reti televisive americane sui fronti più caldi dell’area mediorientale, ho un ricordo personalissimo che da questo momento avrà un valore certamente diverso da quanto non ne abbia avuto fino ad ora: è una vecchia macchina da scrivere, una Olivetti 22, con cui Simone andò a fare il suo esame scritto per l’abilitazione alla professione giornalistica.
Proprio così, una sera mi chiama suo padre, Pierluigi Camilli (che era il Vice Direttore Vicario della Tgr diretta allora da Angela Buttiglione) e, dati i nostri vecchi rapporti di amicizia, sapendo Pierluigi che io ero un appassionato di vecchie macchine da scrivere, mi chiede dove Simone potesse comprarne una: “Sai- mi disse – tra due settimane Simone dovrà fare gli esami per diventare giornalista professionista, ma al Consiglio Nazionale gli han detto che l’esame non si può fare con il pc. Devono avere una macchina da scrivere a tasti e devono portarsela da casa. Puoi darmi per favore un consiglio sul dove poterla trovare?”.
Lo tranquillizzai immediatamente, perché a casa io avevo diverse macchine da scrivere funzionanti da potergli prestare, e gli promisi che entro una settimana la mia Olivetti 22 sarebbe stata a casa sua. Ricordo che mi rispose con grande imbarazzo: “Pino devo confessarti – mi disse – che Simone non ha mai usato in vita sua una macchina da scrivere a tasti, quindi è urgente che lui la abbia prima possibile, perché dovrà pure esercitarsi. Sai come sono questi ragazzi, cresciuti a pane e computer? Il nostro esame professionale è già di per sé molto complicato per loro, se poi aggiungi che devono sostenerlo usando uno strumento che non conoscono…allora è la fine”.
Capii l’urgenza e l’indomani mattina affidai la mia macchina da scrivere ad un corriere che da Cosenza, dove allora vivevo, l’avrebbe consegnata a Roma non oltre le 24 ore successive. Così fu. L’esame di Simone andò benissimo, Pierluigi ne andava giustamente fiero, e per i primi tre mesi immediatamente successivi all’esame ricordo Pierluigi felice e pienamente appagato. Finchè un giorno – io capitai a Roma per uno dei tanti incontri di lavoro che Angela Buttiglione puntualmente ogni tre mesi voleva tenere con i capiredattori delle sedi regionali della Tgr della Rai – lo ritrovo cupo e teso come una corda. Gli chiedo come mai avesse perso il suo tradizionale sorriso, e avesse invece quella faccia da funerale. Mi portò nella sua stanza, al quarto piano del palazzo Rai di Borgo Sant’Angelo, e mi confidò che Simone aveva deciso di trasferirsi a Tel Aviv.
Capii subito che Pierluigi non era d’accordo con la scelta di Simone, che allora aveva meno di 30 anni. Pierluigi sapeva bene delle mie continue frequentazioni con Israele, sapeva soprattutto che per motivi di famiglia anch’io andavo e venivo dall’aeroporto di Ben Gurion, e che conoscevo ormai Tel Aviv meglio di come conosca oggi Roma: forse intimamente,come padre, si aspettava che io in qualche modo lo confortassi e aiutassi lui questa volta ad accettare con maggiore serenità la scelta difficile che Simone gli aveva appena comunicato. Gli spiegai subito che suo figlio sarebbe andato a vivere e a lavorare in una città favolosa, bella davvero, piena di luci e di grattacieli modernissimi, vissuta da molti stranieri, e dove non c’era da temere davvero nulla. Persino il vecchio mercato delle pulci di Giaffa a Est di Jefet St – gli dissi – è meno pericoloso di certi nostri mercati tradizionali occidentali.
E poi gli sottolineai la cosa che mi sembrava davvero la più importante per un padre esigente e professionalmente arrivato come lui: “Se Simone ti ha chiesto di andare laggiù, aiutalo a partire. Per lui sarà un’esperienza irripetibile, e sul piano professionale sarà un’esperienza assolutamente indimenticabile”.
Alla luce di quello che leggo oggi mi pento di avergli detto in quel modo, ma io allora ci credevo davvero nel fatto che un giovane cronista come Simone, alle prime armi, volesse misurarsi con la complessità e le difficoltà obiettive del medio oriente, e che l’esperienza di un fronte difficile come quello di Gaza, o sui territori al confine con il Libano la Giordania e la Siria, potessero farne col tempo un grande inviato di guerra.
Non ho un figlio maschio, e quindi potrei anche dire una cosa per un’altra, ma se Simone fosse stato mio figlio io lo avrei aiutato a partire. Così fece Pierluigi.
Nei mesi successivi alla partenza di Simone, Pierluigi non faceva che parlare di lui, delle cose che aveva fatto nel cuore del deserto israeliano, delle interviste esclusive che aveva realizzato, dei rapporti internazionali che come producer aveva maturato vivendo tra Tel Aviv e Gerusalemme, della dimestichezza con cui raccontava quelle zone di guerra, e della magia che questo suo lavoro aveva regalato alla sua vita.
“In Italia non avrebbe mai potuto fare nulla di tutto questo”, ripeteva Pierluigi. Ma non solo: in Italia prima o poi qualcuno avrebbe pensato o persino detto che Simone Camilli non poteva che fare il giornalista, se non altro perché figlio di un padre-giornalista famoso e potente.
Pierluigi Camilli è stato davvero uno dei giornalisti più influenti e più prestigiosi della Rai, e se lo avesse voluto non avrebbe avuto nessun problema a fare assumere Simone in una qualunque comodissima redazione romana. E invece no. Il maestro-giornalista Pierluigi Camilli condivide con il figlio la soluzione meno comoda, la più difficile sul piano sentimentale, ma la più seria sul piano professionale.
Oggi la foto di Simone è su tutti i siti internet del mondo. Suo padre e sua madre, e le sue sorelle, ne siano fieri: perché un cronista che muore sul campo, così come è accaduto a Simone Camilli, con tanto di cinepresa a tracolla e cellulare pronto a trasmettere e smistare quelle immagini in ogni parte del mondo, è più che un eroe. E’ un esempio per tutti noi, che da giovani colleghi come Simone abbiamo ancora molto da imparare. O forse è molto di più ancora.
Il marito di mia figlia che si chiama Ben Sion, che vuol dire figlio del Sole, e che è nato e cresciuto sul confine israeliano oggi mi dice sorridendo: non serve piangere o disperarsi, lui ora è felice davvero e ci guarda dall’alto del Muro del Pianto. Che per loro, israeliani, è molto più che il “nostro” Paradiso cristiano.
Caro Pierluigi ti prometto: andrò anch’io ad inginocchiarmi davanti al Muro del Pianto per salutare il tuo piccolo – grande – figlio Simone Camilli, ma soprattutto per dirgli che ora la mia vecchia Olivetti 22, che tanti anni fa gli prestai per l’esame di stato, rimarrà sulla mia scrivania per sempre. Avevo deciso di darla come tante altre cose inutili della mia vita passata, ma ora non posso più farlo. Semmai dirò che l’ha usata un giovane eroe del giornalismo moderno. Così non avrà prezzo!

Pino Nano
Caporedattore centrale Agenzia nazionale Tgr Rai

Un commento

  1. Alberto De Stefano

    Un omaggio commossso alla memoria di Simone Camilli, un “eroe del giornalismo moderno” come magistralmente definito dal grandissimo Pino Nano, vanto della Calabria.

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