ROMA – Sono trascorsi pochi giorni dalla scomparsa di Giuseppe Pelosi, meglio conosciuto come Pino la Rana, che uccise – così dice la “verità” processuale – Pierpaolo Pasolini nella notte tra il 1 ed il 2 novembre 1975.
«Quel massacro non avvenne, oggi sappiamo, solo per mano di Pelosi. Nell’ultima arringa firmata Guido Calvi, infatti, la famiglia dell’intellettuale si ritira da parte civile in un processo annoso e pieno di colpi di scena poiché, finalmente, viene riconosciuta la compartecipazione di terzi, soggetti che massacrarono l’autore, sì lo massacrarono!».
Parla senza remore Simona Consoni, che a Pasolini ha dedicato 15 anni di studio e un libro, “Sul ‘Petrolio’ di Pier Paolo Pasolini” (Prospettiva editrice), e che non si rassegna a “questa, che non è la verità sull’assassinio di colui che amo definire il Corsaro: non possiamo accettare che non si faccia luce, ancora oggi, su quanto è davvero accaduto”.
«Massacrarono Pasolini servendosi, poi, di Pelosi come ragazzino privo di strumenti verbali e cognitivi, strutturali e sociali – prosegue la scrittrice – in grado di riferire la realtà degli accadimenti di quella notte. Leggo le dichiarazioni del suo avvocato, che parla di ‘segreti importanti mai svelati per paura di ripercussioni e minacce fatte alla famiglia di Pino la Rana e ad egli stesso’. Addirittura l’avvocato stesso ora avrebbe paura poiché unico custode della verità».
«Non si può gioire della morte di un essere umano, non nel mio codice assiologico, – afferma un’appassionata Simona Consoni – ma non trovo intellettualmente onesto, allora come ora, né mai, celare la verità per paura personale. Si chiama omertà, ed a pochi giorni dall’anniversario della morte di un simbolo del nostro torturato Paese, come Paolo Borsellino, chiedo, urlo, anche io con la “mia sola puerile voce” che il Fondo Pasolini, le Università, il mondo degli intellettuali, degli artisti, delle istituzioni si ribellino a tale insopportabile silenzio, cui non trovo definizione più giusta se non omertà. Ho sempre avuto una strana tenerezza per Giuseppe Pelosi, capro espiatorio di un disegno ben più ampio, giovane disadattato, socialmente ed intellettualmente valutato dagli esperti giuridici addirittura infantile e non corrispondente nella personalità e nella psicologia ad un ragazzo della sua età. Pelosi ha continuato la sua vita da malavitoso fino ai lavori socialmente utili ed alla libertà, durata poco a causa di una seria malattia. Ma noi non possiamo più aspettare, l’Italia non può più aspettare, il mondo non può più aspettare che la verità sia gestita da una vergognosa omertà, prima di uno, poi di un altro. Paura? Comprensibile, umano, ma ci si affidi a chi di dovere e si ridia voce al Poeta torturato. Il processo si dovrà riaprire a fronte di questi importanti segreti taciuti e custoditi».
«Noi scrittori e studiosi – incalza la scrittrice – dedichiamo la nostra vita a raccontare storie sopra ed attraverso la realtà, ma rispettandola sempre. L’immaginario non può più escluderla, la realtà. Chi ha la facoltà di farlo intervenga per dare, finalmente, giustizia al poeta, al regista, al continente Pasolini, alla sua famiglia, ad un genio che ha stravolto un linguaggio letterario e sociale per crearne uno nuovo, oggetto dei nostri più cauti, rispettosi quanto passionali studi. Mi unisco al dolore della famiglia di Pelosi, ma chiedo buon senso civile e giustizia. Perché solo attraverso la verità delle parole in forma di realtà, potrà averla, finalmente, la giustizia, il nostro amato Pierpaolo Pasolini».
In fondo, ammette Simona Consoni, «la verità la troviamo già in “Petrolio” (il libro che Pasolini non riuscì a vedere pubblicato, ndr). I nomi sono lì, come tante delle risposte che cerchiamo. Pasolini ci ha indicato “chi” poi lo avrebbe ammazzato o, meglio, fatto ammazzare». È forte il grido della letterata che ha dedicato buona parte della vita – e continua a farlo – a studiare il suo “Corsaro”.
«Peccato che gli studiosi ai quali ho fatto appello non mi abbiano seguita, ma, come diceva Pertini – chiosa la Consoni – a volte bisogna saper lottare anche senza speranza». (giornalistitalia.it)