ROMA – La memoria collettiva dell’olocausto è stata ritrovata fuori tempo massimo per le generazioni che hanno vissuto e patito le atrocità del nazismo e gli orrori dei campi di sterminio. Soltanto 60 anni più tardi, nel 2005, l’Onu ha istituito, per il 27 gennaio di ogni anno, anniversario della liberazione dal lager di Auschwitz, la Giornata della Memoria. Fino ad allora si era sottaciuto, parlato sottovoce dell’eliminazione pianificata di milioni di innocenti.
Oggi si vuole punire il cosiddetto negazionismo di quella tragedia, quando per decenni oblio e silenzio avvolsero le atrocità naziste. Perché tanta indifferenza, perché in così vergognoso ritardo si è deciso di aprire gli occhi alla stragrande maggioranza nata e cresciuta in epoche successive?
Viltà e ipocrisia hanno accecato volutamente l’umanità e nascosto i sopravvissuti nelle retrovie della società e della storia. Il bavaglio sulla Shoah venne determinato agli inizi dalla voglia di dimenticare il lato oscuro di quegli anni, dall’accorato desiderio di ricominciare a vivere gettandosi alle spalle l’esperienza traumatica della guerra e le brutalità del nazifascismo. E si girò la testa dall’altra parte per non urtare la suscettibilità della Germania di Bonn, per decenni bastione dell’Occidente contro l’impero sovietico e contro il comunismo. Purtroppo, l’antisemitismo ha radici profonde e ogni tanto riaffiora in superficie, provocando violenze e vandalismi.
Nei primissimi anni del dopoguerra, le scolaresche venivano accompagnate in visita istruttiva al Sacrario delle Fosse Ardeatine. Fu una breve parentesi frutto più dello spontaneismo che dell’ufficialità delle classi dirigenti e intellettuali, unicamente preoccupate per oltre 50 anni di mettere la sordina su quei dolorosi avvenimenti. In altre epoche, la rimozione di fatti e misfatti accaduti si chiamava “damnatio memoriae”.
Neo-senatrice a vita a 87 anni, Liliana Segre è una degli ultimi indomabili reduci di Auschwitz. La sua voce si è levata alta contro decenni di indifferenza e contro i rigurgiti antiebrei. Ecco il suo atto di accusa: “Appena uscita dal lager ho capito fin dal principio che nessuno aveva la capacità di ascoltarci, di comprendere quello che era accaduto. Per 45 anni ne ho parlato solo con gli amici più intimi, con mio marito. Il mondo non ci capiva e non aveva voglia di capirci”.
Anche se oggi è cresciuta una nuova consapevolezza (i continui viaggi delle scolaresche nei campi di concentramento) è sempre dietro l’angolo il rischio che la Giornata della Memoria si riduca ad esercizio retorico di lettura di una pagina della storia come tante altre. Forse non tutto è destinato a volatilizzarsi, perché si è costruita una robusta stampella che sfida il tempo e lo spazio, contrastando i tentativi di sotterrare il ricordo individuale e collettivo di popoli oppressi.
Il più grande memoriale del mondo lastrica strade e piazze di 21 Paesi europei e persino dell’Argentina, con ciottoli commemorativi in ottone (finora 61mila!) davanti alle case dove domiciliarono i martiri e le loro famiglie. Il ricordo si dirama lungo un percorso internazionale della Shoah e rifiorisce nelle cosiddette “pietre di inciampo”, un incespicare visivo e mentale per fare riflettere il passante. Secondo il Talmud “un essere umano si dimentica solo quando è dimenticato il suo nome”.
Questa è la filosofia che ha ispirato il progetto dell’artista berlinese Gunter Deming (oggi71enne) che personalmente incastona a terra le piastrelle e poi le cementa. Oggi, le “stelpersteine”, l’appellativo originale, sono dappertutto e continuano a moltiplicarsi. Si va componendo un grande mosaico di dimensioni senza confini piastrellato da targhette d’ottone della grandezza di un sanpietrino (10cm x 10cm). In ognuno si legge a caratteri incisi nome, cognome, anno di nascita, data di deportazione e morte, indicazione del gulag incriminato. È sempre possibile sponsorizzare martiri rimasti finora nell’ombra, segnalandoli all’indirizzo email info@stolpersteine.eu .
Dal 9 gennaio 2012, mio nonno Fritz, morto nell’inferno di Auschwitz, rivive nel marciapiede davanti al portone di via Monte Zebio 40 a Roma, allora abitato dalla sua famiglia romana che lo aveva accolto nel settembre 1941, profugo ebreo da Berlino senza più tetto, senza più identità civile professionale. Nella dedica scolpita sulla targhetta di nonno si legge: “Qui abitava Fritz Warschauer nato nel 1877, arrestato il 21 dicembre del 1943, deportato ad Auschwitz, assassinato il 10 aprile 1944”. (giornalistitalia.it)
È il più grande memoriale per non dimenticare i nomi delle vittime della follia nazista