COSENZA – È in libreria l’opera della giornalista Fabrizia Rosetta Arcuri, scritta insieme a Sergio Caruso, “Sangue del mio sangue” (Falco Editore, 168 pagine, 15 euro), che racconta “la più grande strage familiare d’Italia”. Il caso della “strage di Buonvicino”, piccolo borgo pedemontano della provincia di Cosenza: 19 novembre 1996, 6 bare, tra cui quella di una bambina di 11 anni, 2 caricatori da 15,23 colpi sparati dalla pistola d’ordinanza, 14 ore di terrore, la vita sospesa di altri due bambini.
La vicenda si svolge tra Buonvicino e Diamante (altro comune del cosentino), in località Visciglioso: il carabiniere Alfredo Valente, all’epoca 33enne, rifiutando di accettare la rottura del proprio matrimonio, partì da Formia (Latina), dove lavorava, e raggiunse armato la propria abitazione in Calabria, dove uccise sua moglie, Genny Salemme di 32 anni, e la famiglia di lei. Alfredo Valente e sua moglie Genny erano sposati da alcuni anni e avevano una figlia, Alessandra, di 4. Ma la loro unione era ormai finita. Quando Valente arrivò in Calabria, Genny aveva appena finito di cenare con sua figlia Alessandra e i suoi genitori, Raffaele Salemme, 75 anni, e Marianna Amoroso, di 72. Con loro c’erano anche la sorella di Genny, Francesca Salemme, 38 anni, e il marito di lei, Luigi Benvenuto, 39, con i loro due bambini: Fabiana, 11 anni, e Marco, 3.
Valente sparò contro sua moglie e poi contro il resto della famiglia sotto gli occhi dei tre bambini, che si rifugiarono sotto il tavolo della cucina. Quindi disse ai bambini di prepararsi per partire in macchina con lui. La piccola Fabiana si buttò sul corpo della madre morta, piangendo. Valente la uccise. Quindi portò via sua figlia Alessandra e il nipotino Marco, che era ferito, e in una folle corsa attraversò tutta l’Italia per arrivare a Brescia, dove consegnò i due bambini al cognato. Nel pomeriggio il carabiniere fu arrestato.
Valente fu condannato a 30 anni di reclusione, ne ha scontati 25 e, “grazie” all’indulto, ora è libero ed è tornato a vivere a Diamante.
I media, all’epoca, hanno descritto la strage in maniera diretta, forte e agghiacciante. Il racconto poi è stato affidato ad una sorta di tradizione orale, tipica delle piccole comunità che ne custodiscono in silenzio il ricordo.
A rompere quel silenzio, l’uscita del libro “Sangue del mio sangue”, la storia della più grande strage familiare avvenuta in Italia, che, a sole due settimane dalla presentazione, sta riscuotendo grande eco anche sulla stampa nazionale.
Scritto a quattro mani, fornisce due chiavi di lettura: quella dello psicanalista, il criminologo Sergio Caruso, e della testimone diretta, la giornalista Fabrizia Rosetta Arcuri, nipote di una delle vittime: “I ricordi si susseguono, i momenti di quel giorno riaffiorano nello scorrere inesorabile del tempo e della vita, ancora ritornano nei sogni”.
Nel primo caso il testo ha l’intento di analizzare, attraverso concetti scientifici ed etici, la casistica di un fenomeno sempre più crescente definito “family mass murderer” (omicida di massa familiare), e rappresenta anche un chiaro invito alla prevenzione. Mentre il racconto della giornalista Arcuri è una sorta di autobiografia del dolore, che porta in evidenza il vissuto delle cosiddette vittime secondarie.
La prefazione è del professor Francesco Bruno, allora consulente del pubblico ministero, e le conclusioni del libro sono state affidate a Manuela Iatì, giornalista di SkyTg24.
Il libro squarcia 25 anni di silenzio. Tra le voci, anche quella di uno dei due bambini superstiti, Marco Benvenuto, che allora aveva 3 anni: “Innocenza defraudata degli affetti più cari, sfregiata dalla memoria di quelle immagini difficile da rimuovere nonostante la tenera età”.
Il libro ha l’intenzione di descrivere in maniera appropriata questo grave delitto e le conseguenze che ne sono scaturite, con un occhio di riguardo verso le vittime secondarie, che diventano “gli invisibili”, spettri viventi dei reati violenti.
Un vulnus che si manifesta nella mancanza da parte dello Stato di un supporto giusto e adeguato: questi soggetti raramente vengono seguiti in maniera appropriata a seguito dell’evento post traumatico che ne segna, in alcuni casi in maniera indelebile, il percorso della vita e, nel caso specifico, nessun risarcimento è stato riconosciuto ai due superstiti.
“Sangue del mio sangue” non vuole essere l’esaltazione della notizia criminis, più dannosa che costruttiva, non c’è morbosità. Volutamente omesse le parti più intime di un disagio personale o costruzioni mentali che non aggiungono nulla di tangibile e reale oltre quella verità del fatto, dell’atto stesso.
La descrizione della scena del crimine e dell’acting out (il passaggio all’atto lesivo) sono riportati così come negli atti ufficiali del pubblico ministero in sede d’indagine preliminare, dai verbali delle udienze e del dibattimento davanti alla Corte di Assise: “Fuori pioggia e tuoni, forti, continui, quasi a descrivere la scena di un film di paura. Sì, tutti pensarono al peggio, ma non certo a quello che da lì a poco avrebbero scoperto aprendo la porta di quella casa. Una scena esposta nei minimi particolari, scritta, protocollata, confermata sotto giuramento e che è rimasta indelebile nella loro mente”.
Ma la storia trova il suo lieto fine ed è Marco a chiudere il libro con la sua testimonianza diretta e la sua battaglia di giustizia: “Il mio spirito, pur se sempre alla ricerca di vuoti da riempire, ha trovato le sue ragioni. La cosa più bella che possa esserci è vivere e poter toccare il mondo e percepire tutte le sue meraviglie a prescindere da ciò che ti succede, trovare la voglia e la spinta per poter andare avanti. Anzi, è ciò che forgia il tuo carattere, il coraggio e la fermezza che ti spingono a dare tutto e sognare di poter fare grandi cose. Sono la rabbia, il dolore e la sofferenza che, se mescolati e incanalati nel modo giusto, trovano l’antidoto per la cura, è la benzina che alimenta la tua anima e la volontà di superare qualsiasi ostacolo. È il dolore il carburante della felicità”. (giornalistitalia.it)
Francesco Cangemi