ROMA – Surrealista, militante, fotoreporter e perfino zen, Henri Cartier-Bresson è al centro di una grande retrospettiva che, a dieci anni dalla scomparsa, riassume la sua intera produzione attraverso tutto il ‘900. Fino al 25 gennaio, negli spazi espositivi del Museo dell’Ara Pacis sono allestite ben 500 opere, tra cui 350 stampe vintage d’epoca, 100 documenti (quotidiani, ritagli di giornali, riviste, libri manoscritti, film), dipinti e disegni per raccontare non solo il grande fotografo, ma soprattutto uno dei maggiori artisti del XX secolo.
“Abbiamo lavorato lunghi anni alla realizzazione di questa mostra”, ha detto il curatore Clement Cheroux del Centre Pompidou, che, in collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson, ha realizzato la retrospettiva promossa per questa edizione da Roma Capitale, Sovrintendenza capitolina dei Beni culturali e prodotta da Contrasto e Zetema. Lo scopo era quello di creare un nuovo percorso espositivo, uno sguardo diverso da quello che lo aveva consacrato quale leggenda vivente con mostre in tutto il mondo.
“All’epoca, le retrospettive su Cartier-Bresson costituivano una sorta di battaglia – ha spiegato il curatore – per far entrare, mentre era ancora in vita, la sua fotografia nei più prestigiosi musei internazionali”. Si puntava quindi a mostrare l’unitarietà della sua opera, come se ogni scatto, in ogni fase dei lunghi 70 anni di attività, fosse dominato solo dal celeberrimo principio dell”istante decisivo’.
“Cartier-Bresson non è solo questo”, ha proseguito Cheroux, dagli anni ‘30 la sua tecnica e la sua poetica si sono evolute, plasmate dalle suggestioni surrealiste, dalle passioni politiche come dall’adesione del fotoreporter agli eventi storici e sociali da raccontare, del grande ritrattista (Matisse, Truman Capote, Sartre, Giacometti indimenticabili).
Molte facce di un unico artista, che con la sua opera ha influenzato i linguaggi visivi di un intero secolo e che la retrospettiva, secondo una precisa scelta curatoriale, illustra attraverso le 350 immagini vintage riunite all’Ara Pacis.
Ecco quindi i piccoli formati degli anni ’30, all’epoca del debutto del maestro in fotografia, alla ricerca della “bellezza convulsa“ teorizzata da Breton, che via via si fanno più astratti e più grandi fino a trasformarsi in un ininterrotto reportage sulla vita, la storia, la società. Dal tempo libero, le domeniche in riva alla Senna, le gioie del campeggio per le pubblicazioni del partito comunista francese alla fine del Terzo Reich fino alla fondazione dell’Agenzia Magnum, i funerali di Gandhi, la Cina, il Messico, Cuba, l’Africa, l’Italia, ogni reportage è l’occasione per l’artista di dare vita a vere e proprie inchieste di antropologia visiva attraverso cui riscrivere un’epoca. “Sono visivo – diceva – osservo, osservo, osservo, è con gli occhi che capisco”.
Dagli anni ‘70, influenzato dalle filosofie orientali e dallo zen, il suo sguardo si fa più contemplativo, intimo e torna al disegno, antica passione. E mentre non amava farsi ritrarre in fotografia, con la matita l’autoritratto diventa esercizio quotidiano. (Ansa)
All’Ara Pacis 500 opere del grande fotoreporter a dieci anni dalla scomparsa