ROMA – La Commissione Giustizia del Senato ha completato, in sede referente, l’esame della riforma della diffamazione che dovrebbe sanare un vulnus che dura ingiustificatamente da troppo tempo e su cui i due rami del Parlamento, da decenni, non sono mai riusciti a trovare un accordo definitivo su un testo comune.
È una questione molto delicata che interessa tutti i cittadini perché investe la libertà di stampa, il diritto di cronaca, nonché il diritto ad una libera, corretta e compiuta informazione, che é garanzia fondamentale della democrazia nel nostro Paese nel pieno rispetto con pari dignità della reputazione delle persone.
Dopo aver dato via libera, prima dello scorso Natale, alla proposta di legge n. 835 di cui é stato primo firmatario il giornalista e senatore Primo Di Nicola (Movimento 5 Stelle), in tema di risarcimento danni in caso di lite temeraria, la Commissione ha approvato, ma con numerose modifiche introdotte dai relatori di maggioranza, il disegno di legge n. 812 del senatore Giacomo Caliendo (Forza Italia), proponendo all’aula di Palazzo Madama la sostituzione integrale di quattro articoli della legge sulla stampa n. 47 del 1948 (n. 1, 8, 13 e 21), l’inserimento nella legge sulla stampa di un nuovo articolo (l’11 bis), la cancellazione di un altro (il n. 12) e il mantenimento senza alcuna modifica di 20 articoli (dal 2 al 7, dal 9 all’11, dal 14 al 20 e dal 22 al 25).
Molte le novità: l’eliminazione del carcere sostituito da sanzioni pecuniarie da versare alla Cassa delle Ammende (cioè all’Erario), talmente elevate da far chiudere un organo di stampa.
È stata, poi, approvata una nuova disciplina per regolamentare rettifiche e smentite e lo spostamento della sede dei processi penali in base al luogo di residenza del diffamato, e non più in base al luogo dove è stampato un giornale o dove è stato registrato un sito online. A sorpresa rimane, invece, per ora invariato in 5 anni il termine di prescrizione dell’azione civile per il risarcimento del danno alla reputazione.
Importanti modifiche riguarderanno anche i codici: é stata proposta la sostituzione sia dell’art. 57 del codice penale sulle responsabilità del direttore e del vicedirettore, sia dei primi tre commi dell’art. 595 dello stesso codice con nuove pesanti multe al posto della possibile detenzione. Sono stati, poi, integrati tre articoli del codice di procedura penale: il 200 c.p.p. con l’estensione ai giornalisti pubblicisti della norma sul segreto professionale, il 321 c.p.p. sul possibile blocco preventivo di dati informatici disposto dal giudice per non aggravare l’ulteriore diffusione di notizie diffamatorie e il 427 c.p.p. sulla condanna del querelante a versare somme alla Cassa delle Ammende se le accuse si rivelassero pretestuose. Sono state, inoltre, predisposte due norme che mirano a tutelare la persona diffamata oppure lesa dal trattamento illegittimo di dati personali e l’adozione di procedure di notifica e rimozione in base al decreto legislativo n. 70 del 2003.
Fin qui le modifiche al disegno di legge del senatore Caliendo destinate, comunque, a suscitare reazioni e polemiche dentro e fuori il Parlamento. È, anzi, prevedibile che l’iter del provvedimento sarà piuttosto tortuoso e già prima del suo passaggio alla Camera potrebbe essere radicalmente cambiato in più punti.
Le maggiori critiche vengono da editori e da giornalisti che considerano la riforma addirittura peggiorativa in più passaggi della normativa esistente. Non é, quindi, escluso che Fieg, Fnsi e Cnog o Associazioni Regionali Stampa o Sindacato Cronisti facciano pervenire al Senato, prima del dibattito in Aula, ulteriori rilievi ed osservazioni per migliorare il testo finale e renderlo più equo possibile e rispondente alla Costituzione e alla Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo.
Per quanto riguarda, invece, il disegno di legge di cui é primo firmatario il senatore Di Nicola é stato proposto un efficace deterrente contro le liti temerarie e pretestuose su cui concordano pienamente editori e giornalisti: chi promuove un giudizio civile chiedendo in malafede o con colpa grave cifre astronomiche al presunto diffamatore rischierà una condanna da parte del giudice a pagare una somma pari al 25% di quanto ingiustamente richiesto. Se, ad esempio, il signor Rossi chiedesse, senza alcun fondamento giuridico, al signor Bianchi 100 mila euro di risarcimento danni da diffamazione, rischierà di pagare al signor Bianchi in via equitativa 25 mila euro.
Vediamo ora in dettaglio le principali novità.
1) RETTIFICHE E SMENTITE
Il nuovo art. 8 della legge sulla stampa del 1948 proposto dalla Commissione Giustizia è totalmente diverso da quello attualmente in vigore ed è molto più complesso. Prevede testualmente che:
«1. Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a pubblicare gratuitamente e senza commento, senza risposta e senza titolo, con l’indicazione “Rettifica dell’interessato”, nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa o in altro prodotto editoriale registrato di cui all’articolo 1, comma 2, lettera a), le rettifiche o le smentite dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità, del loro onore o della loro reputazione o contrari a verità, purché le rettifiche o le smentite non abbiano contenuto che possa dar luogo a responsabilità penale o non siano documentalmente false. Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a informare l’autore dell’articolo o del servizio della richiesta di rettifica o smentita, nonché il soggetto che le ha richieste nel caso in cui ritenga di non pubblicarle, con specifica indicazione delle ragioni per cui la pubblicazione è stata esclusa. Con le stesse modalità di cui al primo e al secondo periodo, l’autore dell’articolo o del servizio ha diritto di chiedere e ottenere la pubblicazione delle rettifiche o delle smentite consentite ai soggetti di cui ai medesimi primo e secondo periodo entro i termini previsti dai commi 3, 4, 5 e 6.
2. Le rettifiche o le smentite devono fare riferimento all’articolo o al servizio che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interezza, purché contenute entro il limite di trenta righe e sessanta battute per riga, con le medesime caratteristiche tipografiche dell’articolo o del servizio cui si riferiscono, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate.
3. Per i quotidiani, le rettifiche o le smentite sono pubblicate entro due giorni dalla ricezione della richiesta e devono essere collocate nella stessa pagina nella quale è stato pubblicato l’articolo o il servizio cui si riferiscono.
4. Per i periodici, le rettifiche o le smentite sono pubblicate non oltre il secondo numero successivo alla settimana in cui è pervenuta la richiesta, nella stessa pagina nella quale è stato pubblicato l’articolo o il servizio cui la richiesta si riferisce.
5. Per i quotidiani on line di cui all’articolo 1, comma 2, lettera a), le rettifiche o le smentite sono pubblicate entro due giorni dalla ricezione della richiesta in calce all’articolo o al servizio cui si riferiscono, con le stesse caratteristiche grafiche, per tutto il tempo in cui permanga la visibilità dell’articolo o del servizio, oppure nella pagina iniziale del sito, per la durata di trenta giorni, ove l’articolo o il servizio non sia più visibile.
Nel caso in cui il quotidiano on line di cui al primo periodo fornisca un servizio personalizzato, le smentite o le rettifiche sono inviate agli utenti che hanno ricevuto l’articolo o il servizio cui si riferiscono.
6. Per la stampa non periodica, l’editore o, comunque, il responsabile è tenuto a pubblicare le rettifiche o le smentite nell’edizione successiva della medesima pubblicazione. Nel caso di ristampa, l’editore è tenuto altresì a pubblicare le rettifiche o le smentite nelle copie ristampate in calce all’articolo o al servizio cui si riferiscono. Ove la rettifica o la smentita riguardi il contenuto di un libro, l’editore o, comunque, il responsabile è tenuto a pubblicare le rettifiche o le smentite nel proprio sito internet ufficiale, entro due giorni dalla ricezione della richiesta, in una pagina appositamente dedicata alle rettifiche il cui accesso deve essere visibile nella pagina iniziale del sito, fermo l’obbligo di inserire la rettifica o la smentita nel volume in caso di ristampa.
7. Qualora, trascorsi i termini di cui ai commi 3, 4, 5 e 6, le rettifiche o le smentite non siano state pubblicate o lo siano state in violazione di quanto disposto nei commi da 1 a 6, oppure qualora sia stato comunicato all’autore della richiesta che esse non saranno pubblicate, quest’ultimo può chiedere al giudice, ai sensi dell’articolo 700 del codice di procedura civile, che sia ordinata la pubblicazione.
8. Il giudice, qualora ritenga fondata la richiesta, ordina la pubblicazione e condanna la parte inadempiente al pagamento di una sanzione da 5.165 euro a 51.646 euro, destinata alla cassa delle ammende.
9. Il provvedimento di accoglimento deve essere pubblicato per estratto unitamente alla rettifica o alla smentita omessa, con le forme indicate nei commi da 1 a 6. In caso di inottemperanza il responsabile è punito ai sensi dell’articolo 388, secondo comma, del codice penale.
10. Per i telegiornali e i giornali radio di cui all’articolo 1, comma 2, lettera b), le disposizioni di cui ai commi 7, 8 e 9 si applicano nel caso di omessa rettifica nel termine o con le modalità di cui all’articolo 32-quinquies del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, salvo che l’interessato abbia trasmesso la richiesta all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ai sensi del comma 3 dello stesso articolo».
Si richiama l’attenzione soprattutto sui commi 8 e 9 perché in caso di inadempimento il giudice civile in via d’urgenza può ordinare la pubblicazione della rettifica o della smentita, condannando il giornalista a pagare alla controparte una sanzione da 5.165 euro a 51.646 euro, destinata alla Cassa delle Ammende. In caso di inottemperanza il responsabile rischia anche la reclusione fino a tre anni o la multa da 103 a 1.032 euro in base all’articolo 388 del codice penale.
Si tratta di sanzioni che appaiono decisamente esagerate soprattutto nei 5.165 euro da versare come minimo all’Erario. Era preferibile che la legge stabilisse solo un “tetto” massimo di sanzione lasciando poi al giudice la possibilità di quantificare caso per caso l’importo minimo da versare.
2) QUANTIFICAZIONE DEL RISARCIMENTO DEL DANNO
Di rilievo è anche il nuovo art. 11 bis in base al quale il giudice, prima di determinare il risarcimento del danno derivante da diffamazione a mezzo stampa, debba tener conto «della diffusione quantitativa e della rilevanza nazionale o locale del mezzo di comunicazione usato per compiere il reato, della gravità dell’offesa, nonché dell’effetto riparatorio della pubblicazione e della diffusione della rettifica o della smentita».
3) NUOVE PESANTI SANZIONI PECUNIARIE PER LA DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA CON OBBLIGO DI PUBBLICAZIONE DELL’EVENTUALE SENTENZA DI CONDANNA
È questa una delle norme di maggior rilievo della riforma su cui un mese fa la Corte Costituzionale ha puntato il dito invitando il Parlamento a modificarla entro il mese di maggio 2021 perché non in linea con la Costituzione e con la Convenzione europea per i diritti dell’Uomo.
Attualmente in caso di diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato il giudice penale può condannare un giornalista da uno a sei anni di carcere congiuntamente ad una multa non inferiore a 258 euro (si ricorda, però, che poiché non è previsto un massimo edittale, ex art. 24 c.p., può essere irrogata dal giudice una multa fino a 50 mila euro, ndr).
Questo è, invece, il nuovo articolo 13 della legge sulla stampa ora proposto dalla Commissione Giustizia del Senato:
«1. Nel caso di diffamazione commessa con il mezzo della stampa o degli altri prodotti editoriali registrati di cui al comma 2 dell’articolo 1, si applica la pena della multa da 5.000 euro a 10.000 euro.
2. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità, si applica la pena della multa da 10.000 euro a 50.000 euro.
3. Alla condanna consegue la pena accessoria della pubblicazione della sentenza nei modi stabiliti dall’articolo 36 del codice penale e, nell’ipotesi di cui all’articolo 99, secondo comma, numero 1), del medesimo codice, la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a sei mesi.
4. L’autore dell’offesa nonché il direttore responsabile del quotidiano, del periodico, dell’agenzia di stampa o di altro prodotto editoriale registrato di cui all’articolo 1, comma 2, della presente legge e i soggetti di cui all’articolo 57-bis del codice penale non sono punibili se, con le modalità previste dall’articolo 8 della presente legge, anche spontaneamente, siano state pubblicate o diffuse rettifiche o smentite idonee a riparare l’offesa. L’autore dell’offesa è altresì non punibile quando abbia chiesto, ai sensi del terzo periodo del comma 1 dell’articolo 8, la pubblicazione della rettifica o della smentita richiesta dalla parte offesa e la pubblicazione sia stata rifiutata.
5. Con la sentenza di condanna il giudice dispone la trasmissione degli atti al competente ordine professionale per le determinazioni relative alle sanzioni disciplinari.
6. Si applicano le disposizioni di cui agli articoli 596 e 597 del codice penale».
La soluzione proposta suscita notevoli perplessità ed appare eccessivamente penalizzante per i giornalisti condannati per diffamazione. Ma soprattutto non sembrano essere state assolutamente rispettate le direttive contenute in numerose sentenze della CEDU – Corte Europea per i Diritti dell’Uomo – che hanno più volte condannato l’Italia ed altri Stati europei proprio per le sanzioni pecuniarie troppo elevate, ingiustificate e sproporzionate perché indurrebbero il giornalista a preferire di “bucare” la notizia senza renderla di pubblico dominio piuttosto che rischiare di pagare somme rilevantissime.
Ecco perché c’è il rischio che queste ingenti multe possano condizionare la libertà di stampa e possano introdurre un illegale bavaglio al giornalismo di inchiesta perché i giornalisti non sarebbero più stimolati ad informare compiutamente i cittadini.
Le pesanti multe previste dai primi due commi, rispettivamente da 5 mila a 10 mila euro per la diffamazione a mezzo stampa e da 10 mila a 50 mila euro da versare alla Cassa delle Ammende, cioé allo Stato, per la diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato falso, appaiono decisamente fuori linea perché va poi anche risarcita la persona diffamata e vanno pagate le parcelle dell’avvocato difensore e di quello che assiste la parte civile. La somma complessiva equivarrebbe ad un vero e proprio salasso per il giornalista, tenendo anche conto che non esiste alcuna possibile polizza assicurativa che garantisca da questi potenziali rischi!
Molto discutibili sono entrambe le pene accessorie previste dal 3° comma:
a) in caso di condanna del giornalista autore di un articolo ritenuto diffamatorio scatta l’obbligo di pubblicazione della sentenza nel sito internet del Ministero della giustizia per non più di 30 giorni (la durata della pubblicazione è stabilita dal giudice). È questa una novità assoluta della riforma;
b) sempre in caso di condanna il giudice può infliggere la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a sei mesi.
La nuova norma proposta non tiene, però, conto che da alcuni anni ormai le sanzioni disciplinari spettano per legge al Consiglio territoriale di Disciplina che é istituito presso ogni Ordine regionale dei giornalisti (ente pubblico sottoposto alla vigilanza del Ministero della Giustizia).
Il Consiglio territoriale di disciplina é nominato dal presidente del tribunale del capoluogo regionale. Si invaderebbe, quindi, una competenza altrui. Un analogo errore é contenuto anche nel 5° comma perché il giudice non dovrebbe trasmettere gli atti al competente Ordine dei giornalisti, ma, semmai, sempre al Consiglio di Disciplina istituito presso ogni Ordine regionale dei giornalisti.
In compenso, però, é prevista la cancellazione dell’attuale art. 12 della legge sulla stampa in base al quale in caso di diffamazione a mezzo stampa la persona offesa può chiedere, oltre al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione pecuniaria, determinata in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato. La Commissione Giustizia del Senato ha proposto l’abrogazione di questa norma.
4) COMPETENZA TERRITORIALE PER I PROCESSI PENALI PER DIFFAMAZIONE
È una modifica epocale. Si prevede che «per i delitti di cui all’articolo 13 della presente legge e all’articolo 57 del codice penale commessi con il mezzo della stampa o di altro prodotto editoriale registrato di cui all’articolo 1, comma 2, della presente legge è competente il giudice del luogo di residenza della persona offesa».
La delicata questione della definizione del foro competente a giudicare sulle querele per diffamazione va risolta con equità e buon senso. E ci si augura che il Senato voglia bocciare questa proposta insensata che, violando la Costituzione, capovolge consolidati principi giuridici. Si prevede infatti che, nel caso in cui ad essere querelati per diffamazione siano agenzie di stampa, giornali quotidiani, periodici, radio e telegiornali o testate online registrate, la competenza passi al tribunale del luogo di residenza del diffamato/querelante, con un pesantissimo ed ingiusto aggravio dei costi che un giornalista dovrebbe sostenere per difendersi. Insomma, si introdurrebbe un illegale bavaglio al giornalismo di inchiesta.
Per di più in tal caso potrebbero essere violati anche gli articoli 24 e 111 della Costituzione per violazione del diritto di difesa e del giusto processo. Ma, soprattutto, non sarebbe rispettato il principio contenuto nell’art. 25 della Carta repubblicana, secondo cui: «Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge».
Si potrebbe, infatti, verificare che un articolo pubblicato da un quotidiano o da un sito online registrato venga ritenuto diffamatorio da 10 persone residenti in 10 città diverse di più Regioni. Si verificherebbe l’assurda situazione che il giornalista presunto diffamatore dovrebbe difendersi per lo stesso articolo in 10 tribunali diversi davanti a 10 diversi magistrati e assistito da 10 difensori o comunque da 10 domiciliatari diversi. Insomma, si avrebbe una proliferazione di procedimenti penali per uno stesso articolo tanti quanti sono i luoghi di residenza delle persone offese.
Non sarebbe, forse, un vero monstrum del diritto? E non sarebbe necessario un preventivo nulla osta da parte del Consiglio Superiore della Magistratura di cui é Presidente il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che almeno su questo punto potrebbe poi non firmare la riforma della diffamazione una volta che fosse approvata dai due rami del Parlamento?
La soluzione più equilibrata appare, invece, quella di lasciare la competenza com’è oggi per la carta stampata unificandola anche per i siti online registrati o, in alternativa, affidandola al giudice del luogo dove ha sede la redazione giornalistica o editoriale.
5) TERMINE DI PRESCRIZIONE PER LE CAUSE CIVILI DI RISARCIMENTO DANNI DA DIFFAMAZIONE
Per intentare causa civile di indennizzo da diffamazione, cioè per ottenere il risarcimento del danno alla reputazione, non vi è oggi una specifica norma del codice civile che lo preveda. Ma si applica per analogia l’art. 2947 del codice civile che fa, appunto, scattare per un illecito civile un termine di prescrizione di 5 anni.
È questa la diretta conseguenza della sentenza della prima sezione civile della Cassazione del 18 ottobre 1984 n. 5259, meglio nota come «decalogo del giornalista» che ha spalancato le porte al giudizio civile per risarcimento da diffamazione parallelo ed autonomo da quello penale. Da allora in Italia le cause civili si sono moltiplicate, sorpassando del tutto quelle penali anche perché, in caso di assoluzione da una querela, il presunto diffamatore si esporrebbe, poi, ad un possibile processo penale a suo carico per calunnia, mentre se perdesse una causa in sede civile il presunto diffamato pagherebbe solo le spese legali.
La questione dei termini di prescrizione per intentare causa civile doveva essere uno dei pilastri della riforma della diffamazione. Ma, purtroppo, non é andata così. Accogliendo un emendamento al disegno di legge n. 812 del senatore Caliendo presentato dai senatori Alberto Balboni e Luca Ciriani (Fratelli d’Italia) la Commissione Giustizia del Senato ha, infatti, respinto la proposta che prevedeva di limitare a 2 anni dalla pubblicazione il termine di prescrizione dell’azione civile per il risarcimento del danno alla reputazione.
Pertanto, a sorpresa e contro ogni previsione, é rimasto implicitamente invariato il termine di prescrizione di 5 anni previsto dall’art. 2947 del codice civile.
Negli ultimi 20 anni sono state in proposito votate da Camera e Senato varie ipotesi. Il senatore Stefano Passigli propose un anno di prescrizione in sede civile e questo termine fu votato solo dal Senato nel 2004 durante il governo Berlusconi. Nell’art. 1 del testo votato in modo univoco dalla Camera il 17 ottobre 2013 e dal Senato il 29 ottobre 2014 si prevedeva che: «l’azione civile per il risarcimento del danno alla reputazione si prescrive in 2 anni dalla pubblicazione». Sul punto non fu presentato alcun emendamento, ma non divenne legge perché su altri punti della riforma mancava l’accordo tra i partiti.
Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, in un documento votato all’unanimità il 22 gennaio 2015, propose, invece, una prescrizione di 1 anno (come aveva già indicato il Senato nel 2004), trattandosi di un tempo più che sufficiente per ottenere la riparazione della propria reputazione.
Anche la Fieg a pag. 5 del suo documento depositato al Senato il 9 maggio 2019 ha chiesto che la prescrizione per le cause civili da risarcimento danni da diffamazione scatti dopo 1 anno, ritenendo «eccessivamente lungo» il termine di 2 anni proposto dal senatore Caliendo.
E, invece, si è ritornato ad agganciare il termine di prescrizione a quello di 5 anni previsto dall’art. 2947 del codice civile per tutti i casi di illecito civile.
Si pongono a questo punto molti interrogativi:
1) perchè una persona diffamata deve presentare querela alla polizia o ai carabinieri o alla Procura della Repubblica entro tre mesi in base all’art. 124 del codice penale, mentre per far causa civile può aspettare 5 anni?
2) Non é forse assurda una tempistica così diversa? E come si giustificherebbe tenendo anche conto che, in concreto, il termine di prescrizione di 5 anni si può persino dilatare per notificare gli atti al giornalista presunto diffamatore se l’atto di citazione viene tempestivamente notificato al solo editore?
3) Non c’é forse da chiedersi se chi resta in silenzio per tanto tempo prima di far causa civile per diffamazione sia davvero un presunto diffamato o, invece, un presunto potenziale “ricattatore”?
4) Come é tutelato il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, del giornalista se il presunto diffamato tarda a intentare una causa civile rimanendo in silenzio per 5 anni?
5) E come si può risalire a distanza di così tanto tempo alle concrete e reali responsabilità pro-quota dei collaboratori, redattori, capi servizio, capi redattori, direttori e vicedirettori riguardanti un articolo – o addirittura solo un titolo o un occhiello – ritenuto diffamatorio?
6) Un termine lungo di prescrizione per una causa civile di risarcimento danni da diffamazione comporta in molti casi anche un abnorme allungamento dei tempi di conclusione dello stesso giudizio dinanzi alla magistratura italiana. Ne sono prova alcuni casi clamorosi. Eccone un campionario: l’ex direttore del quotidiano “La Nazione” di Firenze, Gabriele Cané, é stato assolto dopo 21 anni dalla Corte d’Appello civile di Firenze l’8 settembre 2015, l’ex direttore de “La Stampa”, Marcello Sorgi, é stato assolto a distanza di ben 19 anni dalla pubblicazione di un articolo ritenuto diffamatorio con sentenza della Cassazione civile n. 23647 del 10 ottobre 2017. L’ultima decisione in ordine di tempo della terza sezione civile della Cassazione è l’ordinanza n. 12903 del 26 giugno 2020, che ha definitivamente scagionato dopo ben 17 anni tre giornalisti del “Giornale di Sicilia”, Giovanni Pepi, Riccardo Lo Verso e Luca La Mantia, dall’accusa di aver leso l’onore e la reputazione di un assessore al Bilancio della Provincia di Palermo.
Il record negativo spetta, comunque, al giornalista Roberto Di Meo della redazione di Terni de “La Nazione”, che è stato definitivamente scagionato dalla Cassazione civile addirittura dopo 24 anni dalla pubblicazione di un suo articolo ritenuto diffamatorio con ordinanza n. 25177 dell’11 ottobre 2018.
Ma é normale che un giornalista resti sub iudice per così tanto tempo? E come la mettiamo con i tempi del giusto processo regolato dall’art. 111 della Costituzione?
7) Perché allora non si ritorna all’antico, cioè a data anteriore alla sentenza della Cassazione civile n. 5259 del 18 ottobre 1984, prevedendo che solo in caso di condanna penale la parte offesa potrà inoltrare istanza risarcitoria in sede civile? In tal modo verrebbe – almeno sulla carta – rispettato il diritto di difesa del giornalista, sempre che, naturalmente, la magistratura osservi puntualmente la legge! Nell’ultimo ventennio si sono registrati molti casi in cui alcune Procure della Repubblica hanno tenuto inspiegabilmente chiuse a lungo in un cassetto o in un armadio – e addirittura oltre il limite di prescrizione del reato di 7 anni e mezzo – le denunce-querele presentate dal presunto diffamato nei 90 giorni senza, però, mai notificarle al presunto diffamatore!
Si tutela così il diritto, costituzionalmente garantito, del giornalista di presentare denuncia per calunnia nei confronti del presunto diffamato se la denuncia si fosse rivelata pretestuosa? E il magistrato responsabile di questi ingiustificabili ritardi non dovrebbe forse risponderne in sede disciplinare davanti al Csm anche perché impedisce al presunto diffamatore di procedere poi per calunnia nei confronti del presunto diffamato?
La bozza di riforma non affronta minimamente questi delicatissimi temi. È un “buco” che va, invece, colmato e al più presto.
La proposta del Sindacato Cronisti Romani, derivante dall’esperienza diretta sul campo, é molto semplice ed é pienamente rispettosa dei diritti dei presunti diffamati e dei presunti diffamatori: «l’azione civile per il risarcimento del danno alla reputazione si prescrive in 6 mesi dalla pubblicazione nei confronti dell’editore e di ulteriori 6 mesi nei confronti dei redattori, capi servizio, inviati speciali, capi redattori, direttori e vicedirettori».
Il termine di 6 mesi rappresenta il doppio rispetto ai 90 giorni previsti dall’art. 124 del codice penale per presentare querela in base alla legge sulla stampa del 1948, mentre il successivo termine di altri 6 mesi consentirebbe a qualsiasi presunto diffamato di individuare il giornalista presunto responsabile del danno alla reputazione. La doppia tempistica per un totale complessivo massimo di 1 anno é necessaria perché altrimenti – anche se fosse varato il testo della bozza di riforma – si aggiungerebbe ai 2 anni previsti un ulteriore cospicuo e imprecisato lasso di tempo necessario per individuare oltre all’editore il giornalista autore materiale della presunta diffamazione. Si pensi, ad esempio, a quanti articoli vengono pubblicati in modo anonimo e senza firma o con nomi di fantasia.
Il termine massimo di 1 anno (6 mesi + 6 mesi) consentirebbe poi a collaboratori, redattori, capi servizio, inviati, capi redattori, direttori e vicedirettori di potersi adeguatamente difendere anche da azioni civili temerarie.
Non vanno, infatti, trascurati aspetti pratici di rilievo connessi al lungo lasso di tempo intercorrente tra la pubblicazione di una notizia e l’inizio di una causa civile di risarcimento da diffamazione:
a) il problema degli articoli redazionali non firmati, né siglati per i quali é responsabile il direttore di un giornale anche se pubblicati in pagine diverse dalla prima. Poiché é scontato che un articolo di un giornalista viene pubblicato solo dopo la supervisione da parte di altri colleghi della sua stessa testata, é praticamente impossibile individuare le singole responsabilità da parte dei giornalisti coinvolti (redattori, capi servizio, inviati speciali, capi redattori, direttori e vicedirettori) se passa troppo tempo prima di venire a conoscenza di una possibile diffamazione;
b) il problema per siti online, agenzie di stampa, quotidiani, radio e tv della conservazione per anni di tutto il materiale utilizzato per la redazione degli articoli (compresi quelli modificati in extremis dalla sede centrale di un giornale), cioé notizie, bobine, nastri, dvd, video, registrazioni, foto o lanci di agenzie di stampa, ecc. Non occorrerebbero forse costosissimi e giganteschi archivi per ogni azienda editoriale anche di modeste dimensioni? E un free lance come potrebbe cautelarsi conservando forse in casa tutto il materiale necessario?
c) negli ultimi 20 anni Camera e Senato hanno spesso votato per una prescrizione in sede civile inferiore ai 5 anni previsti dall’art. 2947. Ciò dimostra che prescrizioni di 1 anno o, al massimo, di 2 anni, erano perfettamente legali.
d) quando è stato originariamente formulato l’articolo 2947 C.C. , che prevede che il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato, era escluso l’indennizzo per il risarcimento danni da diffamazione perché fino alla sentenza della Cassazione civile n. 5259 del 18 ottobre 1984 – meglio nota come il “decalogo del giornalista” – si doveva sempre attendere la condanna penale a seguito di querela per diffamazione prima di essere indennizzati.
e) nel codice civile esistono altre forme di prescrizioni brevi: ad esempio, il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie il diritto si prescrive in due anni (art. 2947 c.c.), il diritto del mediatore al pagamento della provvigione si prescrive in un anno (art. 2950 c.c.), mentre altre prescrizioni brevi sono previste dagli artt. 2952, 2954, 2955 e 2956 c.c..
f) a ciò si aggiunga che da qualche anno é operante anche la preventiva mediazione obbligatoria in caso di causa civile di risarcimento danni da diffamazione. Ciò farebbe dilatare ulteriormente i tempi oltre i 5 anni.
6) RESPONSABILITA’ DEL DIRETTORE E/O DEL VICEDIRETTORE
È stato totalmente così riformulato l’art. 57 del codice penale riguardante la responsabilità del direttore o del vicedirettore responsabile per reati commessi con il mezzo della stampa o di altri prodotti editoriali registrati:
«Fatta salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione, e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vicedirettore responsabile del quotidiano, del periodico, dell’agenzia di stampa o di altro prodotto editoriale registrato di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, risponde a titolo di colpa se omette di esercitare sul contenuto del quotidiano, del periodico, dell’agenzia di stampa o del prodotto editoriale registrato di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 8 febbraio 1948, n. 47, da lui diretto, il controllo necessario a impedire che con la pubblicazione, la trasmissione o la messa in rete siano commessi reati. La pena è ridotta di un terzo rispetto a quella prevista per il delitto commesso.
Non si applica la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista. Il direttore o il vicedirettore responsabile di cui al primo comma, in relazione alle dimensioni organizzative e alla diffusione del quotidiano, del periodico, dell’agenzia di stampa o del prodotto editoriale registrato, può delegare, con atto scritto avente data certa e accettato dal delegato, le funzioni di controllo a uno o più giornalisti professionisti idonei a svolgere le funzioni di controllo di cui al primo comma.
La delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al direttore o al vicedirettore responsabile di cui al primo comma in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite».
In questo caso é prevista una pena ridotta di un terzo rispetto a quella prevista per il delitto commesso. Ma a differenza di quanto previsto dal nuovo art. 13 della legge sulla stampa stavolta é stata, inoltre, correttamente prevista l’inapplicabilità della pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista.
Restano, invece, invariate altre norme tuttora in vigore collegate all’art. 57 del codice penale. Si tratta degli articoli 57 bis (reati commessi col mezzo della stampa non periodica), 58 (stampa clandestina) e 58 bis (procedibilità per i reati commessi col mezzo della stampa) del codice penale.
7) SANZIONI PENALI PREVISTE PER LA DIFFAMAZIONE DALL’ART. 595 DEL CODICE PENALE
È un altro pezzo forte della riforma. Rispetto alla normativa attualmente in vigore la novità maggiore é che verrebbe cancellato il carcere in caso di condanna alternativo alle sanzioni pecuniarie. In cambio, però, la Commissione Giustizia del Senato ha proposto in caso di condanna per violazione dell’art. 595 del codice penale multe altissime da versare alla Cassa delle Ammende.
Per rendersi conto meglio visivamente della diversità di pena é opportuno tra la situazione attuale e quella futura dei primi tre commi dell’art. 595 c.p.:
A) SITUAZIONE VIGENTE:
«1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro.
2. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro.
3. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro. (N.B. Si ricorda, però, che, poiché per la multa non è previsto un massimo edittale, ex art. 24 c.p., può essere irrogata dal giudice una multa fino a 50 mila euro, ndr).
B) SITUAZIONE FUTURA PROPOSTA:
N. B. I primi tre commi dell’attuale articolo 595 c.p. verrebbero così sostituiti (Vedere art. 2 del disegno di legge Caliendo n. 812):
«1. Chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la multa da euro 3.000 a euro 10.000.
2. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della multa fino a euro 15.000.
3. Se l’offesa è arrecata con qualsiasi mezzo di pubblicità diverso dalle ipotesi di cui all’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, ovvero in atto pubblico, la pena è aumentata della metà».
Come si può notare, l’incremento delle sanzioni pecuniarie appare pesantissimo e sproporzionato, come ha rilevato lo stesso presentatore del disegno di legge n. 812 senatore Giacomo Caliendo che nel corso di una seduta della Commissione Giustizia ha dichiarato: «La norma è estremamente afflittiva… draconiana e peggiorativa rispetto a quella detentiva attualmente prevista».
8) SCUDO RISERVATO AI POTERI DELLO STATO
A sorpresa – perché sembrava erroneamente che un emendamento l’avesse cancellata – é, invece, rimasta in vita una discutibilissima disposizione di favore, una sorta di “scudo” riservato dal Codice Rocco ai Poteri dello Stato, prevista dal 4° comma dell’art. 595 del codice penale. Stabilisce che se «l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate». Ci si augura tuttavia che venga abolita dall’Aula di palazzo Madama.
9) ALTRE NORME PENALI COLLEGATE ALL’ART. 595 C.P. TUTTORA IN VIGORE CHE RESTEREBBERO INVARIATE
A differenza dei primi tre commi dell’art. 595 restano, invece, in vigore cinque successive e connesse norme del codice penale. Si tratta degli articoli. 596 c.p. (Esclusione della prova liberatoria), 596-bis c.p. (Diffamazione col mezzo della stampa), 597 c.p. (Querela della persona offesa ed estinzione del reato), 598 c.p. (Offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie o amministrative) e 599 c.p. (Provocazione).
In particolare, osserva in una nota “Ossigeno per l’Informazione”, viene «riconfermata sulla base di un evidente analfabetismo giuridico e giurisprudenziale, la norma fascista del codice penale che vieta di provare la verità di quanto affermato (articolo 596 del codice penale). Viene mantenuta, nonostante non sia più applicata dal 1984, da quando la Cassazione con la “sentenza decalogo” stabili tra le cause di non punibilità proprio l’aver detto o scritto la verità anche putativa del fatto. Il che potrebbe far pensare che abbiamo a che fare con legislatori che non sanno nemmeno che cosa è la diffamazione».
10) LE PRINCIPALI NOVITA’ RIGUARDANTI IL CODICE DI PROCEDURA PENALE CONNESSE CON LA DIFFAMAZIONE
Gli articoli 5, 6 e 7 del disegno di legge Caliendo n. 812 introducono una serie di integrazioni ad altrettante norme del codice di procedura penale.
A) NORMATIVA SUL SEGRETO PROFESSIONALE
Nel 3° comma dell’art. 200 del codice di procedura penale vengono inseriti i giornalisti pubblicisti accanto ai professionisti iscritti all’Albo tenuto dall’Ordine. La nuova norma prevederebbe, quindi, che:
«1. Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria:
a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano;
b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai;
c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria;
d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale.
2. Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga.
3. Le disposizioni previste dai commi 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti e pubblicisti iscritti nei rispettivi elenchi dell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista professionista o pubblicista di indicare la fonte delle sue informazioni».
B) SEQUESTRO PREVENTIVO DI DATI INFORMATICI
È stato proposto di aggiungere un comma al vigente art. 321 del codice di procedura penale che consentirà al giudice di ordinare ai fornitori di servizi informatici, telematici o di telecomunicazione di rendere temporaneamente inaccessibili agli utenti i dati informatici la cui libera circolazione possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato di diffamazione o agevolare la commissione di altri reati.
C) CONDANNA DEL QUERELANTE ALLE SPESE E AI DANNI
Il testo dell’art. 427 del codice di procedura penale viene integrato da ulteriori sanzioni nei confronti del querelante se la sua denuncia sia stata pretestuosa e il presunto diffamatore sia stato prosciolto per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste. Qualora il querelante abbia agito con colpa grave il giudice può condannarlo a risarcire i danni al giornalista imputato di diffamazione, nonché al pagamento di una somma da 2 mila a 10 mila euro in favore della Cassa delle Ammende, cioè all’Erario.
11) DETERRENTE CONTRO LE LITI TEMERARIE E PRETESTUOSE
Oltre che sul disegno di legge Caliendo l’aula di palazzo Madama dovrà pronunciarsi anche sulla proposta della Commissione Giustizia votata il 19 dicembre 2019. Si tratta del disegno di legge n. 835 di cui é stato primo firmatario il giornalista e senatore Primo Di Nicola (Movimento 5 Stelle) in tema di risarcimento danni in caso di lite temeraria e pretestuosa.
Per scoraggiare la presentazione di cause civili di risarcimento danni da diffamazione del tutto infondate con richiesta di pagamento di cifre astronomiche é previsto che il giudice se ravvisa che il ricorrente – cioè il presunto diffamato – abbia agito in mala fede o con colpa grave, oltre a respingere le sue richieste può condannarlo a risarcire per responsabilità aggravata a i sensi dell’art. 96 del codice di procedura civile non solo le spese del giudizio, come avviene sinora, ma al pagamento in via equitativa del 25% della somma da lui ingiustamente richiesta nell’atto di citazione o nel corso del giudizio.
In pratica le modifiche dell’art. 427 c.p.p. e dell’art. 96 c.p.c. mirano a limitare al massimo in futuro la presentazione di querele e di cause civili del tutto campate in aria nei confronti di giornalisti finalizzate solo ad imbavagliare la libertà di stampa.
12) ULTERIORI NORME IN MATERIA DI DIFFAMAZIONE PROPOSTE DALLA COMMISSIONE GIUSTIZIA SUL DISEGNO DI LEGGE N. 812 DEL SEN. CALIENDO
Gli articoli 3 e 4 del disegno di legge Caliendo propongono ulteriori novità legislative connesse alla diffamazione anche online.
A – Misure a tutela del soggetto diffamato o del soggetto leso dal trattamento illegittimo di dati personali.
Vediamo di che si tratta:
«1. Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti, l’interessato può chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge.
2. L’interessato, in caso di rifiuto o di omessa cancellazione dei contenuti o dei dati, ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, può chiedere al giudice di ordinare la rimozione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei medesimi contenuti e dati ovvero di inibirne l’ulteriore diffusione. Il giudice, con il provvedimento di cui al periodo precedente, può, su istanza dell’interessato, condannare l’inadempiente al pagamento di una somma determinata in via equitativa.
3. In caso di morte dell’interessato, le facoltà e i diritti di cui al comma 2 possono essere esercitati dagli eredi o dal convivente».
B – Nuove procedure e misure per la rimozione di contenuti giudicati offensivi.
Il nuovo art. 17 bis del decreto legislativo 9 aprile 2003 n. 70 (Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico) prevede l’adozione di procedure di notifica e rimozione di contenuti giudicati offensivi. È una novità assoluta e di notevole rilievo perché prevede nuovi obblighi, nuove procedure che coinvolgono anche l’Agcom e nuove pesante sanzioni amministrative per i trasgressori variabili da un minimo di 15 mila euro ad un massimo di 40 mila euro. Occorre, quindi, fare attenzione e conoscere bene e nei minimi particolari la futura nuova disposizione di legge:
«1. Il prestatore ha l’obbligo di individuare, tra i soggetti iscritti nell’albo dei giornalisti pubblicisti, un soggetto preposto alla ricezione dei reclami da parte di coloro che si ritengano offesi nella propria reputazione dai contenuti pubblicati.
2. Coloro che si ritengano offesi nella propria reputazione dai contenuti pubblicati possono, con dichiarazione scritta notificata a mezzo di posta elettronica certificata (PEC), contestare la veridicità di tali contenuti o la non continenza formale delle espressioni utilizzate e, sulla scorta di una congrua motivazione, chiederne la rimozione o la disabilitazione.
3. Il prestatore, ricevuta la notificazione, provvede entro le successive ventiquattro ore alla rimozione o alla disabilitazione dei contenuti manifestamente offensivi o, in alternativa, ove non condivida le ragioni della richiesta, entro i successivi sette giorni attiva una procedura di conciliazione in contraddittorio tra le parti dinnanzi ad un organo di autoregolamentazione indipendente istituito appositamente presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) con delibera della medesima Autorità. L’organismo è finanziato dai diversi gestori delle piattaforme sottoposti agli obblighi del presente decreto ed è dotato di una struttura organizzativa idonea a ricevere le istanze, applicando criteri procedurali e di discrezionalità predeterminati che contemplino altresì il possibile riesame delle decisioni sulla base di un apposito atto di regolamentazione definito, con proprio regolamento, dall’Agcom.
4. Qualora, all’esito della decisione dell’organo di autoregolamentazione indipendente di cui al comma 3, i contenuti siano giudicati offensivi, il prestatore rimuove entro ventiquattro ore tali contenuti.
5. Il prestatore deve informare l’utente che ha pubblicato i contenuti giudicati offensivi della decisione adottata e delle motivazioni su cui essa si fonda. In caso di rimozione del contenuto, il prestatore è tenuto a documentare e conservare tutti gli atti relativi al procedimento di segnalazione ai sensi delle direttive 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, e 2010/13/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 10 marzo 2010, per un periodo di dieci settimane.
6. Il soggetto che si reputa leso dai contenuti non rimossi o non disabilitati a seguito della procedura di segnalazione può rivolgersi al giudice al fine della revisione della decisione adottata dall’organo di autoregolamentazione indipendente di cui al comma 3. La giurisdizione sui provvedimenti adottati dall’organo di autoregolamentazione indipendente di cui al comma 3 è attribuita al giudice ordinario.
7. Il prestatore che abbia in buona fede rimosso o disabilitato i contenuti a seguito della ricezione di una notifica ai sensi del comma 2 non è responsabile nei confronti dei terzi.
8. Il prestatore deve informare gli utenti del servizio, all’atto della conclusione del contratto, della obbligatorietà della procedura di conciliazione dinnanzi all’organo di autoregolamentazione indipendente di cui al comma 3.
9. La violazione dell’obbligo di cui al comma 1 è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 15.000 euro a 20.000 euro.
10. La violazione dell’obbligo di cui al comma 4 è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 20.000 euro a 40.000 euro.
11. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai prestatori di servizi di comunicazione telematica con almeno 500.000 utenti registrati».
13) QUESTIONI RIMASTE PER ORA IRRISOLTE E NON ESAMINATE DALLA COMMISSIONE GIUSTIZIA DEL SENATO IN TEMA DI DIFFAMAZIONE
Alcune questioni sulla riforma della diffamazione sono rimaste, comunque, aperte perché non esaminate dalla Commissione Giustizia del Senato, quasi che il problema non esista, come il diritto di rivalsa dell’editore sul giornalista, la suddivisione di responsabilità tra autore di un articolo, la redazione e il direttore, nonché l’indennizzo esentasse. Ciò é forse dovuto al fatto che l’intera problematica non è ben conosciuta a 360 gradi. È, invece, un “buco” che va colmato al più presto.
A) MANLEVA DELL’EDITORE E RISCHIO D’IMPRESA
Fino a 32 anni fa vi era un patto non scritto tra tutti i giornalisti, radio, tv e giornali, una sorta di gentleman agreement, in base al quale l’editore si accollava per intero l’onere di una condanna per diffamazione in sede civile. Da allora le cose sono radicalmente cambiate (é stato proprio il sottoscritto a fungere per primo da “cavia”, essendo stato il primo giornalista in Italia a subire nel dicembre 1988 la cosiddetta azione di “manleva”, cioè di rivalsa nei miei confronti da parte dell’editore, cioé del “Corriere della Sera” mio ex giornale). Gli editori, infatti, hanno cambiato strategia, rivalendosi sempre sugli autori degli articoli soprattutto se essi hanno nel frattempo cambiato azienda o sono andati in pensione o hanno avuto dei diverbi con la proprietà del giornale (molto frequente é il caso dei direttori). Ma da parte degli editori non si é forse dimenticato il cosiddetto “rischio d’impresa”?
Purtroppo, questo delicatissimo problema é stato accennato solo di sfuggita negli ultimi contratti collettivi nazionali di lavoro giornalistico Fieg/Fnsi, ma senza risultati concreti. E non é stato minimamente affrontato nella bozza di riforma della diffamazione.
B) SUDDIVISIONE DI RESPONSABILITA’ IN CASO DI DIFFAMAZIONE ACCERTATA
È rimasto insoluto anche il problema della ripartizione delle singole responsabilità tra i giornalisti coinvolti (collaboratori, redattori, capi servizio, inviati speciali, capi redattori, direttori e vicedirettori), essendo praticamente quasi impossibile ricostruire tutti i vari passaggi di un articolo se passa troppo tempo prima di venire a conoscenza di una possibile querela per diffamazione o di un’azione civile di risarcimento danni alla reputazione.
C) INDENNIZZO ESENTASSE PER IL DIFFAMATO
Tra le tante anomalie della diffamazione c’é anche quella che consente a chi vince in tribunale una causa di diffamazione in sede civile di non pagare neppure un euro di tasse. È giusto così? Ciò non rappresenta forse un notevole incentivo a far causa proprio per ottenere un risarcimento al netto di Irpef? Non si danneggia gravemente l’Erario? Perché allora nella riforma votata dalla Commissione Giustizia del Senato non se ne parla affatto, nonostante la grave crisi economica del nostro Paese anche per l’emergenza per la pandemia da Coronavirus – Covid-19? (giornalistitalia.it)
Pierluigi Franz