ROMA – Immagini e filmati, indispensabili oggi più di prima per descrivere i fatti della cronaca che in molti casi diventano pagine importanti della Storia. Fotografi e cineoperatori, per conto di testate giornalistiche e televisive o indipendenti, da soli ovvero a supporto degli inviati.
Raffaele Ciriello era uno di loro, anche se si era laureato in medicina e si era specializzato in chirurgia plastica. Viveva a Milano, dove era arrivato con la famiglia dalla Basilicata all’età di appena due anni, ma era nato a Venosa, località nota per essere la patria di Orazio, nel 1959, e del poeta latino a un certo punto della sua vita sposò il noto “carpe diem”, lasciandosi alle spalle sale operatorie e donne cinquantenni da ringiovanire. Amava le motociclette, come Ernesto Che Guevara, e la fotografia, e iniziò a seguire le gare ufficiali e a documentarle sulla rivista mensile “Motociclismo”, la più autorevole in questo settore. Poi nel 1991 seguì la Paris-Dakar, la più faticosa e famosa gara di rally per auto e moto. Fu allora che decise di fermarsi in Africa, una terra che “prende” per le contraddizioni che esprime.
Scattava foto che documentavano la selvaggia bellezza dei luoghi, i deserti, la gente che viveva nelle tende, la povertà, poi cominciò a interessarsi alla guerra, alle guerre, e nel 1993 iniziò a collaborare come freelance per il Corriere della Sera per documentare ciò che accadeva in quella Somalia dove l’anno dopo vennero uccisi Ilaria Alpi e il suo omologo Miran Hrovatin.
Ciriello continuò per molti anni a fotografare l’inferno della guerra, non solo in Somalia e nell’Africa, e attraverso le sue immagini denunciò la crudeltà umana e l’efferatezza dei regimi di molti Paesi, una lettura critica degli eventi bellici e delle sommosse civili ben diversa dai filmati di repertorio degli americani e degli inglesi durante la seconda guerra mondiale o da quelli di mera propaganda del nazismo, dello stalinismo e del ventennio fascista. Ma dai suoi servizi Ciriello lanciava, al pari dei suoi colleghi, il desiderio di una pace che rimane l’obiettivo principale del genere umano.
Il 13 marzo 2002 Ciriello si trovava a Ramallah, in Palestina, e stava documentando un’operazione di rastrellamento ad opera dell’IDF, Israel Defense Force: da un carro armato partì una raffica di colpi che lo uccise. Aveva poco più di 42 anni ed era padre di una bambina di 17 mesi.
Non vennero mai chiarite le dinamiche della sua uccisione, come accaduto in altre simili occasioni e come spesso accade ancora, e il governo israeliano non rispettò il trattato di collaborazione giudiziaria con quello italiano per individuare i componenti dell’equipaggio del carro armato, tant’è che il conseguente procedimento penale venne archiviato.
Solo nel 2010 il Tribunale di Milano, a conclusione di una lunga e tenace battaglia giudiziaria condotta dalla moglie, Paola Navilli, e dai genitori Giuseppe e Teresa, riconobbe a Raffaele Ciriello (all’anagrafe Ascanio Raffaele Ciriello) lo status di “vittima del terrorismo internazionale”.
Il suo nome si aggiunge alla lunga teoria di fotoreporter caduti sul campo, tra i quali figurano Alessandro Sasa Ota (che venne ucciso in Bosnia nel ’94 assieme ai giornalisti Marco Lucchetta e Dario D’Angelo), il citato Miran Hrovatin, Marcello Palmisano (anch’egli ucciso in Somalia, nel ’95), Almerigo Grilz, morto in Mozambico nel 1987, e molti altri, noti e meno noti, che hanno messo a rischio la loro vita, perdendola, per assicurare l’informazione più completa, nel rispetto dei fatti, alla ricerca della verità dei fatti.
Ciriello è stato il primo giornalista straniero vittima dell’Intifada e il suo nome è inserito nel memoriale di Bayeux (in Normandia) dedicato ai reporter caduti sul lavoro realizzato su iniziativa di “Reporters sans Frontieres”.
Fare informazione è, soprattutto, passione: Ciriello aveva rinunciato per passione a una vita tranquilla da agiato professionista nel campo della medicina e il collega Daniele Biacchessi, di Radio24, studioso della Resistenza e della società contemporanea, nel 2009 ne ha scritto la biografia inserendola, assieme a quelle di altri suoi colleghi, nel volume intitolato “Passione reporter”. (giornalistitalia.it)
Letterio Licordari