ROMA – Importante apertura della Cassazione in tema di libertà di stampa nella motivazione della decisione che ha assolto definitivamente Peter Gomez, direttore della testata online de “Il Fatto Quotidiano”, ed Ersilio Mattioni, direttore dell’edizione online “Libera Stampa Altomilanese” e collaboratore della testata online de “Il Fatto Quotidiano”.
È stato, infatti, ribaltato il precedente verdetto emesso nel 2021 dalla Corte d’appello di Milano, che confermava la precedente decisione del Tribunale di Milano con cui erano stati condannati per il reato di diffamazione ad una sanzione pecuniaria e al risarcimento del danno in sede civile per aver denigrato l’onore e la reputazione del noto politico berlusconiano lombardo Mario Mantovani (Pdl), ex senatore, ex parlamentare europeo, ex vice presidente della Regione Lombardia ed ex sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti in un articolo pubblicato nel 2015 in cui si parlava di una multa per abusivismo comminata alla società “Portomario Srl”, legata alla famiglia Mantovani.
Al termine di una vicenda processuale durata quasi sette anni, la 5ª sezione penale della Suprema Corte, presieduta da Enrico Vittorio Stanislao Scarlini, con sentenza n. 503 del 2023, ha accolto le tesi difensive dell’avvocato Caterina Malavenda di Milano ed ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata “perché i fatti non sussistono”, in quanto i giudici di merito avevano dato alle parole incriminate e allo stesso contenuto dell’articolo contestato una lettura ed un significato del tutto arbitrari.
In pratica, per la Cassazione, il giudice senza poter effettuare alcuna forzatura deve, invece, attenersi scrupolosamente a quanto risulta in modo palese dal testo palese e dal tenore espressivo, grammaticale e sintattico delle frasi ritenute diffamatorie. Altrimenti verrebbe violato il cosiddetto divieto di interpretazione “in malam partem”.
Di conseguenza la Cassazione ha escluso «il carattere diffamatorio di una pubblicazione quando essa sia incapace di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione per la percezione che ne possa avere il lettore medio, ossia colui che non si fermi alla mera lettura del titolo e ad uno sguardo alle foto (lettore cosiddetto “frettoloso”), ma esamini, senza particolare sforzo o arguzia, il testo dell’articolo e tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione, quali l’immagine, l’occhiello, il sottotitolo e la didascalia».
I supremi giudici hanno, così, confermato quanto già affermato nella precedente sentenza n. 10967 del 2019, in una fattispecie in cui la Corte aveva escluso il carattere diffamatorio di un articolo che, riferendosi ad un medico condannato per falso, riportava la foto di un altro medico che aveva posato per un servizio fotografico, ritenendo che si comprendesse agevolmente sia dall’articolo, sia dai sottotitoli, sia da una intervista riportata nella stessa pagina al presidente di un Ordine dei medici che la foto effigiava un medico, ma non quello condannato.
Nell’articolata motivazione di 12 pagine, redatte dal consigliere Maria Teresa Belmonte, la Cassazione ha innanzitutto ribadito i principi di diritto fissati otto anni fa dalle Sezioni Unite Civili dello stesso “Palazzaccio” di piazza Cavour nella nota sentenza riguardante i giornalisti Alessandro Sallusti e Luca Giovanni Fazzo (n. 31022 del 2015), che, in assenza di una precisa normativa in materia e sostituendosi di fatto al legislatore, aveva assimilato funzionalmente una testata giornalistica telematica a quella tradizionale in formato cartaceo, ricomprendendola così nella più ampia nozione di “stampa” di cui all’art. 1 della legge n. 47 dell’8 febbraio 1948.
Va soprattutto sottolineata, perché di particolare rilievo, la riaffermazione di un principio quasi sconosciuto da molti giornalisti, ma posto proprio a garanzia del loro sacrosanto diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione, secondo cui anche nel terzo grado di giudizio in materia di diffamazione, che si svolge sempre e in via esclusiva solo a Roma davanti agli “ermellini” di piazza Cavour, la Suprema Corte non deve esaminare solo questioni in punto di diritto, ma «può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva dell’altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere, in primo luogo, a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato».
Per Carlo Parisi, segretario generale della Figec Cisal, il nuovo sindacato dei giornalisti italiani, è necessario che «il Parlamento, che se ne sta già occupando da alcuni mesi in Commissione Giustizia del Senato, presieduta da Giulia Bongiorno, approvi al più presto una legge seria contro le querele pretestuose e/o temerarie proprio per evitare che giornalisti assolti in via definitiva, dopo quasi sette anni di processo, debbano addirittura pagare ugualmente le parcelle del proprio avvocato difensore. Altrimenti, soprattutto pubblicisti, freelance, precari e giornalisti che lavorano per piccole testate, potrebbero scegliere di non scrivere più notizie ritenute scomode. Ciò impedirebbe, poi, ai cittadini di essere compiutamente e correttamente informati con conseguente violazione dell’art. 21 della Costituzione, in quanto le querele pretestuose ed infondate, anche per effetto della lunga durata dei processi che ne conseguono, finiscono per rappresentare uno strumento di grave censura ed un inaccettabile bavaglio alla libertà di stampa». (giornalistitalia.it)
Pierluigi Roesler Franz
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