SAN MARINO – È opinione largamente diffusa che vi siano guerre sanguinose che, una volta documentate e portate fugacemente alla ribalta mediatica, cadano irrimediabilmente nel mare magnum dell’oblio mediatico, subito sostituite da altri eventi di cronaca che salgono sul palcoscenico della comunicazione.
Ottimi tempi andati, verrebbe da dire, visto che da qualche anno si sta verificando un fenomeno assolutamente nuovo, quello delle guerre silenziose, quelle guerre cioè a cui non sono tributati spazi televisivi di mezzo minuto o titoli di giornali.
Nell’epoca storica dell’onnipresente Isis o Daesh, vi sono ben 33 guerre, delle quali ben otto in Africa. Ne segnaliamo solo alcune:
Mali: qui, gruppi islamisti legati ad al Qaeda e all’Isis devastano il paese. È il paese dove a fine novembre terroristi jihadisti hanno assaltano l’hotel Radisson Blue a Bamako e ucciso più di venti persone.
Camerun-Niger-Ciad: tre paesi, un’unica guerra; qui operano i gruppi di Boko Haram. Stragi, massacri, incursioni nei villaggi e nei campi profughi sono all’ordine del giorno. Una guerra che entra nel suo quattordicesimo anno. Almeno 17mila le vittime.
Sudan: il dittatore Omar al Bashir spadroneggia dal 1989. Nella sola regione del Darfour il conflitto, che si trascina da undici anni, ha causato almeno 300mila morti e 450mila sfollati.
Sud Sudan: la guerra civile tra i miliziani Dinka (legati al presidente Salva Kii) ed i seguaci di etnia Nuer (dell’ex vicepresidente Machar) ha causato decine di migliaia di morti e due milioni i profughi. Quasi cinque milioni di persone affrontano una spaventosa crisi alimentare, mentre l’Unione Africana denuncia crimini atroci: esecuzioni sommarie, stupri, mutilazioni, torture, atti di cannibalismo.
Repubblica Centrafricana: ci siamo accorti della sua esistenza per via della visita di papa Francesco a Bangui, dove è stata aperta la Porta Santa. La guerra civile che devasta il paese scoppia nel 2012: si fronteggiano i ribelli islamici della coalizione del Seleka e i gruppi legati agli Anti Balaka.
Somalia: dal 1991 ad oggi è preda di una guerra infinita. Terminata l’epoca del dittatore Siad Barre, oggi dominano le Corti Islamiche e i terroristi jihadisti legati ad Al Shabaab. Da quando è scoppiato il conflitto si parla di oltre 500mila morti, un milione di rifugiati interni e un altro milione di profughi che ha abbandonato il Paese.
Repubblica Democratica del Congo: terra di enormi ricchezze e pochissima stabilità. Nel paese operano decine di gruppi guerriglieri, almeno settanta formazioni. Come quasi sempre, le ragioni del conflitto vanno cercate nella ricchezza del sottosuolo: diamanti, oro, coltan, ossia la columbo-tantalite, metallo essenziale nei dispositivi portatili quali telefoni cellulari e computer.
Burundi: paese preda di una feroce guerra civile, nell’aprile 2015 la situazione è precipitata. Il presidente Nkurunziza annuncia, infatti, di volersi candidare per un terzo mandato violando così la Costituzione. L’opposizione formata da Hutu e da Tutsi si solleva, le proteste sono represse nel sangue. L’opposizione si arma, inizia la guerra.
Europa. Nagorno Karabakh: è una guerra davvero dimenticata e silenziosa, quella tra Armenia e Azerbaijan per la regione contesa del Nagorno Karabah. Un conflitto che affonda le sue radici nel fatto che Stalin ridisegnò i confini dell’Urss senza tener conto delle etnie e delle differenze religiose. Subito dopo la dichiarazione d’indipendenza dall’Azerbaijan iniziano gli scontri tra armeni e azeri; nel 2014 gli scontri si acuiscono e da allora si continua a combattere.
Asia. Birmania (o se si preferisce il Myanmar): dal lontano 1949, dopo il golpe del generale Ne Win, la minoranza etnica dei Karen viene perseguitata.
Siccome è tristemente vero che questi questi sono paesi nei quali “Dove c’è un uomo c’è un’arma”, come recita la locandina del film “Lord of War”, è inevitabile che l’altra faccia di quelle che Noam Chomsky ha definito “armi silenziose per guerre tranquille” sono, appunto, le armi. Un mercato, quello degli armamenti militari, non costituito solo da pistole e fucili, ma anche da elicotteri, carri armati, cacciabombardieri, sistemi di difesa. In questo scenario l’Italia fa la sua “sporca” figura con il made in Italy militare il cui valore, nel 2014, è stato stimato in ben 2,7 miliardi di euro.
E mentre le coste italiane tornano meta dei richiedenti asilo dalle zone di guerra e non solo, sarebbe opportuno che il sistema mediatico in generale ed il servizio pubblico televisivo italiano in particolare, non si occupassero solo del galateo delle conduttrici, ma di offrire maggiori informazioni su quanto succede nel mondo, possibilmente in orari accettabili.
Sapere cosa accade nel mondo è fondamentale per ognuno di noi: ci regala libertà e ci permette di decidere come agire perché, spesso, per la pace e la democrazia il peggior nemico è il silenzio.
Pietro Masiello