SIRACUSA – Nulla di storico considerato che questo principio è stato sancito dalla Corte di Appello di Catania a mio favore in un ricorso contro il quotidiano La Sicilia ovvero Domenico Sanfilippo Editore e successivamente confermato dalla Cassazione nel 2016. E di questa sentenza si è parlato poco anzi per nulla, per caso o volutamente.
La Corte Suprema di Cassazione Sezione Lavoro, con sentenza n. 16210 del 3 agosto 2016, ha rigettato il ricorso della Domenico Sanfilippo Editore alla decisione a mio favore della Corte di Appello di Catania che, riformando la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto la mia attività di collaborazione giornalistica al quotidiano La Sicilia dal 1996 al 2001 come attività di lavoro subordinato con la qualifica di Redattore (pur essendo giornalista pubblicista) condannando l’Editore al pagamento delle differenze retributive, Tfr e al versamento Inpgi dei correlati contributi.
La Corte di Cassazione, confermando quanto era già stato deciso dalla Corte d’Appello di Catania nella sentenza n. 1046 del 17 novembre 2011, ha statuito tra l’altro che “nel rapporto di lavoro giornalistico la subordinazione non è esclusa dal fatto che il prestatore goda di una certa libertà di movimento e non sia obbligato al rispetto dell’orario ed alla continua permanenza sul luogo di lavoro, essendo finanche ammissibile l’esecuzione della prestazione lavorativa addirittura a domicilio” e che “in tema di attività giornalistica, sono configurabili gli estremi della subordinazione – tenuto conto del carattere creativo del lavoro – in presenza di indici rivelatori quali l’inserimento stabile nella struttura produttiva e la persistenza, nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, dell’impegno di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro, in modo da essere sempre disponibile per soddisfarne le esigenze; né la subordinazione è esclusa dal fatto che il prestatore goda di una certa libertà di movimento e non sia obbligato al rispetto di un orario predeterminato o alla continua permanenza sul luogo di lavoro, non essendo neanche incompatibile con il suddetto vincolo la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni”.
La decisione della Corte d’Appello di Catania prima e della Suprema Corte di Cassazione poi, chiude una vertenza avviata 14 anni fa che ha un grande valore morale, rende giustizia e costituisce un precedente a favore dei tanti colleghi sfruttati, sottopagati e privati di ogni diritto da parte di alcuni Editori.
Agata Di Giorgio
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Caro Direttore,
ringrazio innanzitutto la collega Agatina Di Giorgio per la sua cortese lettera. Ti confermo che é assolutamente vero che la Sezione lavoro della Cassazione con sentenza n. 16210 del 19 aprile 2016-3 agosto 2016 (Presidente Giuseppe Bronzini, relatore Paolo Negri Della Torre) ha dato ragione alla giornalista Agatina Di Giorgio che aveva svolto lavoro subordinato giornalistico presso la redazione di Siracusa del quotidiano “La Sicilia” edito dalla Domenico Sanfilippo Editore.
«Nella specie, i supremi giudici hanno ritenuto corretta la valutazione operata dalla Corte d’appello di Catania che, ribaltando il verdetto di I grado del Tribunale di Siracusa, aveva ritenuto che fosse stato dimostrato che la ricorrente era giornalmente presente al giornale, che di fatto frequentava dalle 9.30 alle 14.00 circa, svolgendo il lavoro preparatorio necessario per definire i servizi da realizzare; che era impegnata anche tutti i pomeriggi nella materiale stesura degli articoli, mediamente pari a quattro al giorno, che trasmetteva da casa via Internet, avendo, quale collaboratrice riconosciuta, la possibilità di accedere alla rete interna della redazione, mediante password; che le era stato fornito un programma di videoscrittura per l’impostazione degli articoli; che la suddetta attività implicava talvolta che ella fosse tenuta a seguire i lavori del Consiglio Provinciale fino a tarda sera e che redigesse subito dopo il “pezzo” da trasmettere al giornale prima della chiusura della pagina intorno alle 23.00: elementi tutti desumibili dalle deposizioni assunte e che, ferma la riconosciuta peculiarità del lavoro giornalistico, caratterizzato da una subordinazione meno intensa, convergevano a sorreggere conclusioni diverse da quelle della pronuncia di primo grado».
Tuttavia, tale importante decisione è stata emessa prima dell’entrata in vigore della legge n. 198 del 26 ottobre 2016. L’art. 5 di questa legge ha sostituito l’art. 45 della legge n. 69 del 1963, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, che attualmente così dispone: «Art. 45. (Esercizio della professione). – 1. Nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista se non è iscritto nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell’albo istituito presso l’Ordine regionale o interregionale competente. La violazione della disposizione del primo periodo è punita a norma degli articoli 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca un reato più grave».
Ebbene la Sezione Lavoro della Cassazione con sentenza n. 3177 del 4 febbraio 2019, anche all’esito delle modifiche introdotte dalla legge n. 198 del 2016, a cui è stato attribuito carattere non innovativo ma meramente esplicativo, ha affermato che «l’attività di giornalista svolta da un collaboratore fisso in modo continuativo ed esclusivo a scopo di guadagno, rientra pur sempre nel concetto di “professione di giornalista” e, in quanto tale, è bisognosa di previa iscrizione nell’elenco dei giornalisti professionisti a pena di nullità del contratto».
Inoltre, per espressa previsione del Cnlg (artt. 2 e 36 ultimo capoverso della nota a verbale), «i collaboratori fissi sono …anch’essi “giornalisti” ove prestino attività lavorativa con continuità, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio e svolgano tale attività con carattere di professionalità e cioè in modo esclusivo». Ed ha aggiunto come il «know how richiesto per fare il redattore o il collaboratore fisso “giornalista” professionista è lo stesso: evidentemente esso non cambia solo per l’esistenza o meno di un vincolo di presenza quotidiana, richiesta per il primo, laddove dal secondo si esige unicamente continuità». Ha poi puntualizzato come «diverso è il ruolo del pubblicista, che è un giornalista non professionale», la cui iscrizione all’albo non è subordinata ad alcun esame, e che ha un diverso know how in quanto «non deve né provvedere alla compilazione quotidiana del giornale né essere responsabile di un dato servizio».
Questi stessi principi sono stati affermati nel 2014 dalla Corte d’appello di Milano che ha accolto le tesi della società editrice de Il Sole 24 Ore, annullando la precedente sentenza del Tribunale di Milano che aveva riconosciuto ad una giornalista pubblicista la qualifica di collaboratrice fissa ed aveva ordinato a Il Sole 24 Ore di regolarizzare il rapporto con l’attribuzione alla suddetta di una retribuzione mensile di 2.500 euro.
Quest’ultima sentenza è stata, però, impugnata dalla giornalista. E il 24 maggio 2019 la Sezione Lavoro della Suprema Corte con ordinanza interlocutoria n. 14262 (Presidente Federico Balestrieri, Relatore Carla Ponterio), su conforme richiesta del Sostituto Procuratore Generale Rita Sanlorenzo, ha deciso di rivolgersi alle Sezioni Unite Civili della Cassazione affinché venisse risolto il contrasto interpretativo e si stabilisse una volta per tutte se il collaboratore fisso debba necessariamente essere un giornalista professionista e non possa essere un pubblicista, anche se eserciti di fatto l’attività in modo esclusivo, per scelta o per necessità, risultando le caratteristiche delineate dall’art. 2 Cnlg (continuità di prestazione, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio) assolutamente compatibili con quelle descritte dall’art. 1 della legge n. 69 del 1963 (attività giornalistica non occasionale e retribuita, e non necessariamente esclusiva, potendo il pubblicista esercitare anche altre professioni o impieghi).
Con l’ordinanza interlocutoria n. 14262 del 24 maggio 2019 sono state accolte le tesi dei legali di una collaboratrice de Il Sole 24 Ore, che sostenevano la legittimità dell’attività giornalistica svolta, anche in modo esclusivo e continuativo, dal collaboratore fisso iscritto nell’elenco dei pubblicisti, in quanto la legge n. 198 del 2016 ha esplicitato che «nessuno può assumere il titolo, né esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell’albo istituito presso l’Ordine».
Risultando, però, questa conclusione in aperto contrasto con la sentenza della stessa Cassazione n. 3177 del 2019 che aveva, invece, elevato il dato quantitativo della esclusività ad unico elemento discretivo tra le due figure di giornalista professionista e di pubblicista, i supremi giudici hanno quindi contestato i principi affermati da questa recente decisione ritenendoli illogici perché si dovrebbe assurdamente escludere la nullità del rapporto di lavoro del pubblicista collaboratore fisso che svolga anche altre professioni, ed affermare la nullità se il medesimo soggetto svolga le identiche mansioni di collaboratore fisso, senza però essere occupato in altre professioni. Insomma la nullità dipenderebbe da circostanze che potrebbero essere del tutto casuali e involontarie.
Ora si è avuto il verdetto finale che risolve un ping pong di sentenze contrastanti tra loro.
In conclusione, ribadisco che la sentenza n. 1867 del 28 gennaio 2020, che ha affrontato a fondo l’argomento in ben 26 pagine di motivazione, ha affermato che «l’attività svolta dal collaboratore fisso espletata con continuità, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio rientra nel concetto di “professione giornalistica”.
Ai fini della legittimità del suo esercizio è condizione necessaria e sufficiente la iscrizione del collaboratore fisso nell’albo dei giornalisti, sia esso elenco dei pubblicisti o dei giornalisti professionisti: conseguentemente, non è affetto da nullità per violazione della norma imperativa contenuta nell’art. 45 della legge n. 69 del 1963 il contratto di lavoro subordinato del collaboratore fisso iscritto nell’elenco dei pubblicisti, anche nel caso in cui svolga l’attività giornalistica in modo esclusivo».
È stato, così, risolto un contrasto giurisprudenziale sorto all’interno della stessa Suprema Corte con un’interpretazione più elastica ed estensiva del nuovo testo dell’art. 45 della legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti n. 69 del 1963, può definirsi, a mio parere, definirsi “storica” perché é stata emessa dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione presiedute dal Primo Presidente Giovanni Mammone ed ha quindi ormai valore di legge, essendo vincolante per tutti i giudici italiani. (giornalistitalia.it)
Pierluigi Roesler Franz
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