PARIGI (Francia) – Le immagini “più sinistre e sconvolgenti che abbia mai visto in tutta la mia vita”: non lo dice un lettore qualsiasi, ma il veterano dei corrispondenti di guerra della Bbc, Jeremy Bowen, impressionato dalle foto del collega curdo iracheno Ali Arkady, autore di una serie intitolata “Kissing Death”. Sono forse il più brutale documento sulle azioni delle truppe irachene che ripresero Mosul dalle mani dell’Isis nel novembre 2016. E sono valse, al suo autore, il prestigioso Premio francese Bayeux-Calvados, riconoscimento assai ambito per i corrispondenti di guerra.
Oltre quel limite
Torture, stupri, violenze di ogni tipo perpetrate ai danni della popolazione civile, che hanno spaccato la giuria del premio e acceso un dibattito: fino a che punto è giusto, per un fotoreporter ‘embedded’, spingersi a documentare l’orrore? C’è un punto che non va superato? Arkady, 34 anni, lo superò. Ha ammesso di essersi sentito costretto in due occasioni – lui fotografo e non soldato – a partecipare al pestaggio di prigionieri durante le sessioni di tortura. Lo fece, dice, per salvare la sua stessa pelle, anche se è un comportamento di cui “non vado orgoglioso”.
Il veterano Bowen, presidente della giuria che lo ha premiato, osserva che “il servizio fatto prendendo quelle fotografie è più potente degli errori commessi”. Un’opinione non condivisa da tutti gli altri colleghi: un membro della giuria del Bayeux-Calvados, che ha voluto mantenere l’anonimato, ha dichiarato all’Afp di essere rimasto turbato dalle questioni etiche che le scioccanti foto hanno sollevato: “La storia non è chiara. Un sacco di gente pensa che lui sia stato coraggioso a raccontare questa storia. Credo invece che non stiamo mandando il messaggio giusto ricompensando questo tipo di lavoro”.
Arkady è stato costretto a lasciare l’Iraq con la famiglia al principio di quest’anno, portando con sé le immagini e i video che provano i crimini di guerra commessi dalla Erd, la Emergency Response Division anti-terrorismo schierata da Baghdad, al cui seguito egli fu per due mesi. Continuò a lavorare con quest’unità dopo che le torture cominciarono, ha spiegato, anche per il senso di colpa di avere dipinto quei soldati come eroi in precedenti servizi per il network americano ABC.
“Ciò che per Ali cominciò come una storia positiva sui soldati iracheni shiiti e sunniti che combattevano dalla stessa parte contro un mutuo nemico, si tramutò in un viaggio dell’orrore che incluse la tortura, lo stupro, l’uccisione e il saccheggio di innocenti civili iracheni”, dichiarano all’agenzia fotografica VII, sede negli Usa, che ha aiutato Ali Arkady a scappare dal Paese. “Ho visto due eroi (i comandanti dell’unità) fare qualcosa di malvagio” ha raccontato Arkady. “Cominciarono a torturare gente, stuprare donne. Nella mia mente cambiò tutto. Ero confuso. Decisi di indagare più a fondo”.
La dura vita degli “stringer”
Secondo Bowen, che ha speso due decenni come reporter dal Medio Oriente, il fatto che Arkady abbia rivelato abusi di cui altrimenti nessuno avrebbe riferito è un fattore che prevale sul resto. “Credo – spiega – sia molto importante che abbia ammesso i suoi errori. In termini morali non è un torturatore”.
Per il fotografo di guerra inglese Sean Smith, di ‘The Guardian”, che non era nella giuria del premio, Arkady “non è condannabile”. La vera questione è “il sistema che lo ha messo in quella posizione, dove spesso sono gli ‘stringer’ indipendenti a fornire la copertura”, perché i colossi dei media “mandano sempre meno persone esperte” nei teatri di guerra.
“Là non c’è nessuno. Virtualmente, tutta la copertura arriva dagli ‘stringer’ e dai social media”. E gli “stringer” spesso vanno dove si verificano i fatti più atroci, ma “non fanno che alimentare la macchina” delle agenzie fotografiche, le quali vogliono mostrare “che sono ancora nel business anche se non coprono più il grosso degli eventi”. “E quando qualcosa va storto, il tizio diventa un capro espiatorio e tutti gli altri fanno i moralisti”, prosegue Smith.
Il cofondatore dell’agenzia VII, Gary Knight, assicura tuttavia che non erano informati sul lavoro di Arkady e di non avere esercitato pressioni su di lui per la pubblicazione delle fotografie. “Anzi, gli consigliammo che ci pensasse a lungo e attentamente… perché sapevamo che poi avrebbe dovuto lasciare il Paese per la sua stessa incolumità, magari per sempre, qualora lo avesse fatto”. Knight aggiunge che alcuni dei più sperimentati fotoreporter di guerra della sua agenzia, come Christopher Morris e Ron Haviv, hanno guidato “Ali per anni dandogli sostegno e consiglio”.
La situazione in cui si è trovato Arkady, secondo Smith, testimonia le circostanze disperate in cui si trovano certe volte i fotografi: “Se vai con gente di un certo tipo non puoi dire ‘Non sono d’accordo con quello che state facendo’. Ti confondi e svanisci, puoi persino finire a ubriacarti con loro”. E c’è sempre il rischio concreto “che tu rimanga steso a un lato della strada con una pallottola in testa”. (agi)