MOSCA (Russia) – La scrivania di Anna Politkovskaya nella redazione della Novaya Gazeta, a Mosca, non è mai stata occupata da nessun altro. Dopo la sua morte, esattamente 10 anni fa, è diventata una sorta di memoriale, in una redazione che ha subito numerose perdite tra i suoi reporter impegnati sul campo. Ania, come la chiamavano gli amici, ha 48 anni quando il 7 ottobre 2006 torna a casa, dopo aver fatto la spesa, e viene uccisa a colpi di pistola nell’ascensore del condominio, dove abita nel centro di Mosca.
La notizia della sua uccisione fa il giro del mondo e la coincidenza dell’assassinio con il giorno del compleanno del presidente Vladimir Putin, di cui era fortemente critica per i suoi metodi autoritari, fa subito pensare che i mandanti siano vicini ai vertici dello Stato. Putin dichiara che la morte della giornalista è “un crimine inaccettabile che non può restare impunito”, ma descrive anche come “insignificante” la capacità di Anna di influire sulla politica russa, minimizzandone il lavoro.
TRE PROCESSI, MA NIENTE GIUSTIZIA
Dopo otto anni e tre processi, nel 2014, la giuria popolare del tribunale di Mosca ha dichiarato cinque uomini colpevoli dell’omicidio della giornalista: Rustam Makhmudov, colui che ha sparato, e suo zio Lom-Ali Gaitukayev, l’organizzatore, sono stati condannati all’ergastolo; i fratelli di Makhmudov, Ibragim e Dzhabrail, sono stati condannati rispettivamente a dodici e quattordici anni di carcere, mentre l’ex-dirigente della polizia di Mosca, Serghei Khadzhikurbanov, che ha partecipato alla preparazione dell’omicidio, ha ricevuto una pena pari a vent’anni. La giustizia non ha stabilito però i mandanti e per i colleghi, parenti di Anna e i difensori dei diritti umani questo equivale a non aver ancora di fatto risolto il caso.
Nel primo processo, Ibragim e Dzhabrail Makhmudov e Khadzhikurbanov erano stati assolti per insufficienza di prove, Rustam era ancora latitante e Gaitukayev era stato ascoltato come teste. La Corte suprema aveva annullato la sentenza per gravi vizi procedurali. Dopo alcuni mesi, accogliendo un ricorso della famiglia della vittima, la Corte aveva sospeso il processo bis appena iniziato, inviando gli atti alla procura per unificarli con l’inchiesta sul mandante (ancora sconosciuto) e sul presunto killer, Rustam Makhmudov, che nel frattempo era stato catturato in Cecenia.
Il processo viene poi riaperto nel 2013. In un processo stralcio, l’ex poliziotto Dmitri Pavliuchenkov, pur collaborando con la giustizia dopo essersi dichiarato colpevole, è stato condannato a 11 anni di carcere duro per aver pedinato la vittima, partecipato all’organizzazione del delitto e fornito l’arma al killer. Proprio Pavlychenko – condannato anche per aver fornito l’arma del delitto – il mese scorso è stato ricoverato nell’ospedale penitenziario per un “brusco deterioramento della sua salute”, con crisi epilettiche e perdita della conoscenza.
Le condanne erano state accolte positivamente dalla famiglia di Anna, che però – tramite i legali – aveva ammonito che “il caso sarà realmente risolto solo quando sarà fatto il nome del vero mandante dell’omicidio”. Diversi analisti critici del Cremlino sostengono che questo non avverrà molto facilmente, dato che l’inchiesta potrebbe portare a qualcuno troppo vicino al governo russo.
DITO PUNTATO CONTRO KADYROV
Subito dopo l’assassinio della sua giornalista, il direttore della Novaya Gazeta, Dmitri Muratov, aveva raccontato che la Politkovskaya stava per pubblicare un nuovo articolo sulle torture commesse dalle forze di sicurezza legate al potente Ramzan Kadyrov, all’ora primo ministro della Cecenia, e fedelissimo del Cremlino.
L’articolo fu pubblicato postumo, sulla base degli appunti rimasti dopo la confisca dei documenti di lavoro della reporter da parte delle autorità russe. Nella sua ultima intervista, poche ore prima di essere uccisa, Anna aveva commentato le prospettive di carriera di Kadyrov con la testata online “Caucasian Knot”.
Mentre la Politkovskaya non ha potuto continuare il suo lavoro di indagine e denuncia sulla situazione in Cecenia, Kadyrov (oggi 39enne) si è insediato proprio ieri per un nuovo mandato, dopo aver ottenuto il 97% delle preferenze nelle elezioni dello scorso 18 settembre. Le organizzazioni per i diritti umani da tempo condannano il leader ceceno e le sue forze paramilitari per gravi abusi, tra cui rapimenti, torture e omicidi extragiudiziali.
BESLAN, LA STRAGE SU CUI NON HA POTUTO INVESTIGARE
A 10 anni dall’omicidio della giornalista della Novaya Gazeta, Anna Politkovskaya, – impegnata nel denunciare gli abusi della politica e delle forze di sicurezza in Russia, soprattutto nel Caucaso – un’altra reporter della Novaya, Elena Kostyuchenko il mese scorso è stata aggredita mentre seguiva le commemorazioni per il 12° anniversario della strage di Beslan, in Ossezia del Nord.
In questa piccola cittadina, nella scuola n°1, dal 1 al 3 settembre 2004 un commando di terroristi ceceni ha tenuto ostaggio 1.127 persone tra scolari e parenti, senza acqua né cibo, fino a che un controverso blitz delle forze sociali russe non ha terminato l’assedio con 334 morti, di cui 186 bambini.
Beslan, Anna e le domande aperte La Politkovskaya aveva tentato di compiere, 12 anni fa, lo stesso viaggio della Kostyuchenko, da Mosca a Beslan, proponendosi come mediatrice nelle trattative con i terroristi. A Beslan non è riuscita ad arrivare, perché avvelenata da un tè servitole da un hostess in volo.
Nessuno nutre dubbi che si sia trattato di una mossa per impedirle di arrivare sul luogo della crisi. Anna è arrivata solo ad autunno inoltrato a Beslan, dove ha raccolto testimonianze di mamme i cui figli erano morti nell’irruzione delle teste di cuoio e ha convinto alcune delle famiglie a rivolgersi alla Corte per i diritti umani di Strasburgo, per conoscere la verità e individuare le responsabilità dei vertici di Stato nella strage.
“Aveva promesso che sarebbe venuta a testimoniare, ma non ha fatto in tempo, ce l’hanno uccisa”, ha raccontato ad Agi Ella Kesaeva, a capo dell’associazione “Golos Beslana” (la voce di Beslan), a cui la Politkovskaya aveva detto che non avrebbe smesso di indagare sull’accaduto.
La Novaya Gazeta ha comunque continuato a occuparsi di Beslan, pubblicando numerosi articoli, che – prove e documenti alla mano – puntano il dito sull’operato delle forze speciali russe, in particolare del famoso gruppo Alfa, il cui blitz deliberato, con lanciafiamme Shmel (vietati dalle convenzioni internazionali) e l’uso di carri armati, avrebbe causato l’elevato numero di vittime.
Oggi, le mamme di “Golos Beslana” denunciano di non sapere ancora la causa della morte dei lori figli e cari, sepolti con pallottole in diverse parti del corpo o addirittura carbonizzati. Fin dall’inizio non furono condotti esami medico-legali sui corpi e non furono fatti esami balistici. Non ci fu tempo, dicono da Mosca; mancò la volontà politica, sostengono a Beslan. Ufficialmente, sono tutti morti “per l’attentato terroristico”.
La versione delle autorità stabilisce che il blitz è scattato dopo tre esplosioni, probabilmente provocate dagli ordigni piazzati nell’edificio dai terroristi, i quali chiedevano il ritiro dell’esercito russo dalla Cecenia e la liberazione di alcuni detenuti. Per le mamme di Beslan, però, – alcune di loro ostaggio, in quei tragici giorni – le esplosioni furono provocata dall’esterno e le autorità russe non fecero abbastanza per trattare con i sequestratori, che avevano già liberato 26 ostaggi alcune ore prima. Putin dichiarò lutto nazionale il 6 e 7 ottobre, visitò i feriti in ospedale, ma non ha mai partecipato alle commemorazioni della strage.
UNA STRAGE CON UN SOLO COLPEVOLE
L’inchiesta parlamentare stabilì che il commando che prese d’assalto la scuola era formato da 32, tra uomini e donne, e che vi furono serie manchevolezze da parte dei responsabili della sicurezza nella regione. L’inchiesta concluse, inoltre, che l’attacco fu premeditato dai ribelli ceceni. L’attentato fu rivendicato dal separatista radicale ceceno Shamil Basayev, pochi giorni dopo l’accaduto.
Nel 2006, l’unico terrorista sopravvissuto, Nurpashi Kulayev, è stato condannato a morte ma, rispettando la moratoria sulla pena capitale vigente nel paese, la pena è stata commutata in ergastolo. La sentenza, però, non ha stabilito chi e perché diede il via all’assalto, cosa causò le prime esplosioni nella palestra, dove erano ammassati gli ostaggi, chi fu responsabile delle disastrose operazioni di soccorso.
Le mamme delle vittime ritengono che quelli che Mosca ha osannato come gli “eroi di Beslan”, cioè i vertici di servizi segreti ed esercito, debbano essere processati. Le donne di “Golos Beslana” sono convinte che Putin in persona, in quanto comandante in capo supremo delle forze armate, abbia ordinato il violento blitz pur di non cedere alle pressioni internazionali, che incoraggiavano un negoziato con uno dei leader della guerriglia cecena, Aslan Maskhadov, che aveva condannato l’attacco alla scuola. (Agi)