ROMA – La Corte di Cassazione (presidente Gerardo Sabeone, relatore Irene Scordamaglia) ha assolto il giornalista Pietro Mancini, 67 anni, dall’accusa di aver diffamato sul quotidiano “l’Avanti!” il magistrato Alberto Cisterna, 59 anni, accusandolo di “non essere stato garantista” nei confronti di suo padre, l’ex ministro calabrese Giacomo Mancini.
Cisterna, 59 anni, aveva presentato ricorso avverso la sentenza con la quale, il 14 dicembre 2018, la Corte di Appello di Perugia, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, il 15 settembre 2016, ha assolto Pietro Mancini dal reato di diffamazione a mezzo della stampa per un articolo sul quotidiano “l’Avanti!” nel quale accusava il magistrato Alberto Maria Cisterna di “non essere stato garantista nei confronti del padre, Giacomo Mancini”.
Nello stesso procedimento il direttore responsabile de “l’Avanti!”, Walter Lavitola, 53 anni, era accusato di omesso controllo. Per il Tribunale di Perugia, infatti, il fatto addebitato a Pietro Mancini non costituiva reato, in quanto «privo di carattere offensivo per la reputazione del dottor Cisterna, costituitosi parte civile».
Cisterna aveva fatto ricorso in Cassazione denunciando la violazione dell’art. 595 del codice penale, perché a suo giudizio «la Corte territoriale, per un verso, avrebbe omesso di valutare la portata offensiva dell’espressione utilizzata dall’articolista: “Il non essere stato il dottor Cisterna garantista nei confronti dell’onorevole Giacomo Mancini” nel più ampio contesto comunicativo nel quale questa era inserita, in cui, sotto il titolo: “Chi di pentiti ferisce”, si era evocata la vicenda che aveva visto per protagonista il padre dell’articolista stesso, rinviato a giudizio dal magistrato esponente sulla base delle “panzane dei pentiti”, e, per altro verso, non avrebbe tenuto conto di quanto l’attribuzione del fatto di non essere stato garantista leda il prestigio sociale e professionale di un magistrato, gettando ombre sulla sua preparazione e serenità di giudizio, a prescindere dalla collocazione del riportato giudizio in una rivista specializzata o in una pubblicazione destinata all’informazione di una categoria indifferenziata di lettori».
Con il secondo motivo, la difesa del magistrato ha denunciato il «vizio di motivazione, stigmatizzata come del tutto mancante, per essere l’affermazione contenuta in sentenza, circa il difetto di carattere diffamatorio dell’attribuzione ad un magistrato del fatto di non essere stato garantista, del tutto assertiva, in quanto frutto dell’omessa valutazione dell’enunciato esaminato nel contesto comunicativo nel quale era inserito». Con il terzo motivo è stato denunciato il «vizio di motivazione da travisamento della sentenza di primo grado».
La Corte di Cassazione ha, invece, ritenuto il ricorso “infondato” per due motivi. Innanzitutto perché la Corte territoriale, «preso atto che il Tribunale aveva ritenuto che dell’articolo a firma di Pietro Mancini, dal titolo “Chi di pentiti ferisce”, apparso sul quotidiano “l’Avanti!”, nella pagina del 25 giugno 2011, dovesse ritenersi diffamatoria nei confronti della parte civile costituita, dottor Alberto Maria Cisterna, soltanto la parte che riportava il giudizio di negazione del garantismo di questi, allorché si era occupato, da Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Reggio Calabria, del processo che aveva visto imputato Giacomo Mancini, ha ribaltato il verdetto di colpevolezza pronunciato dal primo giudice, ritenendo che l’enunciato: “non essere stato il magistrato dottor Cisterna garantista”, per il comune cittadino, lettore di un quotidiano di informazione e non di una rivista specializzata, non esprime un significato dispregiativo, evocativo di negligenza o di un atteggiamento vessatorio, ma allude, latamente, soltanto al non essersi il magistrato conformato alla presunzione di non colpevolezza».
In secondo luogo, la Cassazione ha rilevato che «la riportata motivazione, pur calato l’evocato enunciato valutativo sul quale verte lo scrutinio nel contesto espressivo dal quale è stato enucleato, come richiesto dalla parte civile ricorrente con il primo motivo di ricorso, è giuridicamente corretta.
Considerata, infatti, l’accezione generale e atecnica del termine garantista, quale quella da prendere in considerazione nella fattispecie concreta – avuto riguardo alla platea di destinatari del pezzo giornalistico di cui si discute –, che si incentra sul rispetto, da parte di chi venga definito tale, delle garanzie costituzionali, e rilevata l’assenza, nell’articolo a firma dell’imputato, di qualsivoglia riferimento all’esercizio arbitrario o irregolare da parte del magistrato parte offesa delle proprie funzioni, essendogli stato soltanto attribuito di “avere creduto alle panzane dei pentiti”, va riconosciuto che il giudizio negativo espresso dal giornalista Pietro Mancini nei confronti del dottor Alberto Maria Cisterna, con lo stigmatizzarne l’assenza di garantismo nell’occuparsi del processo a carico di Giacomo Mancini, lungi dal risolversi in un attacco alla sfera dell’identità personale e professionale del magistrato, traduce esclusivamente il pensiero dell’articolista, espresso in termini continenti, di lecita disapprovazione dell’operato del magistrato stesso, soprattutto quanto alla valutazione dei contributi dichiarativi provenienti dai collaboratori di giustizio. Interpretazione, questa, – sottolinea la Cassazione – che si colloca sulla scia dell’orientamento secondo il quale “Il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile, costituendo l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale, che viene esercitata nel nome del popolo italiano da soggetti che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza; ne deriva che il limite della continenza può ritenersi superato soltanto in presenza di espressioni che, in quanto inutilmente umilianti, trasmodino nella gratuita aggressione verbale del soggetto criticato” (Sez. 5, n. 19960 del 30/01/2019, Giorgetti, Rv. 276891; Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866)».
Da qui “l’infondatezza del motivo” sancita dalla Suprema Corte, secondo la quale «il secondo e il terzo motivo di ricorso sono inammissibili, vuoi per genericità, non essendo la censura che si dirige sul vizio di motivazione correlata all’effettivo tenore delle argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata (Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, Scicchitano, Rv. 236945), vuoi per manifesta infondatezza, posto che ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio di motivazione denunciabile in cassazione è solo quello che si riferisce al travisamento della prova derivante da atti specificamente indicati (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014 – dep. 03/02/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774), non certo quello che deriva da una non corretta percezione del significato valutativo dell’insieme argomentativo che correda una decisione».
Per la Corte di Cassazione, pertanto, ha rigettato il ricorso del dott. Alberto Cisterna condannandolo al pagamento delle spese processuali. (giornalistitalia.it)