ROMA – Giornalista, scrittore, conduttore televisivo, Pietro Vigorelli è uno dei cronisti più noti e apprezzati del giornalismo italiano. E anche dei più seguiti dal grande pubblico, considerato che ai tempi in cui firmava e conduceva in prima persona “La Cronaca in Diretta” – 600 puntate diverse, programma storico degli anni ‘90 – per la prima volta la Rai ha sperimentato il racconto della cronaca nera e bianca rigorosamente in diretta con i suoi inviati speciali.
Nato a Zugo, in Svizzera, il 15 giugno 1944, classico “figlio d’arte”, suo padre era il famoso scrittore e critico letterario Giancarlo Vigorelli, sua madre Vittoria De Fazio, script e aiuto regista in oltre 400 film, Pier Lombardo Vigorelli diventa giornalista iscritto all’Ordine del Lazio nel 1970. 19 anni di mestiere nella carta stampata (15 solo al Messaggero come cronista), giornalista parlamentare, inviato speciale e corrispondente da Parigi (1984-1989), gli altri 24 in televisione nei tre grandi network (8 in Rai, 13 in Mediaset e 3 in Telecom), allievo di Ermanno Rea, Guido Vergani e Vittorio Gorresio, al Tempo Illustrato diretto da Vittorio Cattedra: Erano gli anni di Pier Paolo Pasolini e Andrea Barbato, fece il giro del mondo la sua intervista, nell’ottobre del 1970, al successore di Nasser, nella quale il presidente Sadat si dichiarava favorevole alla creazione di due Stati, Israele e Palestina, capovolgendo la politica dell’Egitto che era stata per la distruzione di Israele.
Non uno qualunque, ma un vero e proprio maestro del giornalismo vecchia maniera, quando gli analisti politici come lui venivano interpellati dai Capi di Stato alle prese con le più delicate strategie di politica internazionale.
Basti pensare che il programma che Piero conduceva su Rai 2, con Giampaolo Sodano direttore di rete, ha avuto per tutta la sua durata un ascolto medio del 30 per cento, con un record del 48 per cento e quasi 5 milioni di telespettatori a puntata: un record tutto suo.
«Due – spiega Vigorelli – erano le regole etiche della trasmissione: essere sempre dalla parte delle vittime e raccontare il fatto solo se autorizzati dai familiari delle vittime». Ancora oggi questo format televisivo inventato da Piero Vigorelli è fra i più longevi della Rai ed è un punto di forza della programmazione pomeridiana di Raiuno, col titolo “La vita in diretta” condotto da Alberto Matano.
Poi nel 1994 Letizia Moratti lo chiama alla guida della Testata Giornalistica Regionale della Rai (1994-1996), la più grande testata giornalistica in Europa con oltre mille dipendenti. Qui, in meno di due anni, ha realizzato la terza edizione del Telegiornale, il primo sito internet della Rai per la diffusione dei Tg e Gr regionali, nuove rubriche di approfondimento regionali o nazionali (due dedicate alle tematiche europee) e il “Tg Itinerante”, in diretta dalle piazze dei Comuni della Regione invece che dal classico studio nella sede regionale.
Un visionario che ha fatto della professione una ragione di vita e che al giornalismo scritto e parlato ha dedicato praticamente tutta la sua vita. Da un mese è entrato a far parte del Consiglio Nazionale della FIGEC Cisal, il nuovo sindacato unitario dei giornalisti e di tutti gli operatori dell’informazione, della comunicazione, dei media, dell’editoria, dell’arte e della cultura,
Siamo andati a cercarlo per parlare con lui di fatti sindacali e soprattutto del futuro della professione.
– Direttore, hai appena aderito alla FIGEC, perché? Quale è la vera motivazione di fondo?
«Perché la Fnsi non è più un sindacato. Non lo è da almeno una ventina di anni e non a caso da allora non sono più iscritto. Non è stata una scelta a cuor leggero. Dal 1975 al 1984 sono stato vicesegretario nazionale della Fnsi. Per altri anni ho seguito le vicende della Fnsi dietro le quinte. Infine, quando ho compreso che il sindacato che avevo contribuito a creare non c’era più, me ne sono andato, senza fare clamore, senza esultare come fanno quei calciatori che fanno un gol alla squadra dove avevano militato nel precedente campionato. Adesso, la nascita della FIGEC mi ha dato nuove speranze».
– Credi che il sindacato sia ancora utile ai giornalisti e a che condizioni?
«Ovunque nel mondo le organizzazioni sindacali di ogni tipo sono in piena crisi. Perché il mondo è cambiato, ma il sindacato no. Di solito i nonni danno consigli ai nipoti. Il sindacato è rimasto nonno e i nipoti non ci sono più.
Ho vissuto dal 1984 al 1989 in Francia, come corrispondente del Messaggero. Lì, quando i sindacati proclamavano una vertenza o uno sciopero, tutti si mettevano a ridere. Non contavano quasi nulla, e il presidente della Repubblica era il socialista Mitterrand. In Gran Bretagna la Thatcher li ha fatti secchi, e il laburista Blair non li teneva in considerazione. In Italia, la maggioranza degli iscritti alla triplice sono pensionati, e i lavoratori dal 1994 votano per i partiti del centrodestra.
I sindacati dei giornalisti, poi, sono nel mondo in situazioni peggiori. Per una professione intellettuale la gabbia di un sindacato è un qualcosa che stona. E se il sindacato, invece di creare le condizioni minime di lavoro nell’impresa editoriale, si mette a fare politica o lobby, è condannato ad essere un fantasma di sé stesso. Diventa una ditta e pretende che la professione sia ideologica. Nulla di più sbagliato».
– Qualche esempio?
«Il documento finale del congresso della Fnsi di Riccione ha questo incipit: “Noi giornaliste e giornalisti che si riconoscono nella Costituzione antifascista…”. È la solita pretesa della sinistra di ergersi a unico custode monopolista della democrazia. Da antifascista dalla nascita, ritengo che quando l’informazione e l’opposizione parlamentare inseguono i loro fantasmi, si scivola fatalmente nella propaganda. E non a caso la prima uscita pubblica della nuova dirigenza di Riccione è stata quella di partecipare alla manifestazione di Firenze promossa dalla Cgil di Landini (star al congresso della Fnsi) dopo la scazzottata fra studenti di opposte fazioni».
– La FIGEC come può opporsi?
«La strada che la FIGEC ha scelto per un ritorno alle origini di un sindacato libero, la vedo molto in salita. Ma vale la pena avventurarsi. E poiché ritengo che la ragione sociale di un sindacato sia il contratto di lavoro, nelle nuove condizioni economiche, sociali e professionali, il contratto deve essere una cornice nazionale di diritti e doveri, lasciando alla concorrenza aziendale interna il libero dispiegarsi della professionalità. Contratto nazionale quadro e contratti aziendali su misura. Il giornalista è profondamente individualista e va assecondato. Ma questo non vuol dire che sia anche egoista».
– Dopo tanti anni di battaglie sindacali qual è stata la tua esperienza più importante?
«Direi il contratto che ha introdotto quelli che allora si chiamavano i videoterminali. La maggioranza dei giornalisti all’inizio era contraria, preferiva la bambagia della conservazione alla culla dell’innovazione tecnologica. Poi c’era l’opposizione dei poligrafici, che si rendevano conto che la loro era una categoria in via d’estinzione, come dissi al mio amico Guglielmo Epifani che era il leader della Cgil poligrafici.
Il contratto fu approvato dalla base, anche perché innaffiato da un aumento di 50.000 lire del minimo, mentre i precedenti contratti erano stati di appena 10.000 lire. Ma non sono mancati dei colpi di coda. L’assostampa Veneta di Gabriele Cescutti fece un integrativo regionale dove si aumentò di altre 10.000 lire il minimo, in cambio della rinuncia a un giorno di “corta” al mese. Una scelta indegna».
– E l’esperienza più deludente?
«Vedere come, lentamente e progressivamente, la Fnsi si politicizzava e si burocratizzava. Diventava settaria e lavorava per l’esclusione.
Ai miei tempi e un po’ dopo, i dirigenti del sindacato erano dei professionisti di rango elevato che regalavano le ore libere al sindacato. Vuoi mettere presidenti come Paolo Murialdi o Miriam Mafai, rispetto a Beppe Giulietti o a Di Trapani? Segretari come Luciano Ceschia, Piero Agostini o Giuliana del Bufalo, rispetto a Lorusso o Costante? Quelli che hanno governato la Fnsi negli ultimi vent’anni sono responsabili dello sfascio dell’Inpgi, della crisi della Casagit e del degrado della professione».
– Come giornalista, ti sei mai sentito solo e con un sindacato lontano?
«Più volte, ma non me ne importava. Ho fatto la mia bella carriera con il lavoro professionale. Penso che questa sia anche la convinzione di molti giornalisti, che se ne fregano della Fnsi e che sono iscritti all’Ordine solo perché di fatto obbligatorio».
– Come ricordi la nascita del Singrai che hai fondato?
«Negli ultimi anni del mio impegno sindacale, ero passato all’opposizione con la corrente “Svolta Professionale” che avevo fondato, con un manifesto programmatico illustrato in copertina con la Statua della Libertà che brandiva un microfono. “Svolta” poi vinse il successivo congresso. Prima il “Gruppo dei Cento” e poi il Singrai erano la versione Rai della corrente di “Svolta”, organizzata da Paolo Cantore, Paolo Corsini e molti altri professionisti.
All’epoca ero il direttore della Tgr. Seguivo e tifavo senza troppo apparire. Di fronte c’era l’Usigrai, che è stata l’incubatrice e la genitrice della politicizzazione e della burocratizzazione della Fnsi. Ricordo che l’Usigrai annunciò una querela (mai depositata) sostenendo che l’avevo definita “una banda di ricattatori”. Citazione errata: avevo detto invece che era “una piccola banda di ricattatori”».
– Ritieni che un sindacato nuovo come FIGEC possa tornare utile alla dialettica Rai?
«La Rai è il regno della lottizzazione e dei repentini cambi di casacca. È chiusa in se stessa e ha contagiato anche Mediaset, che si è burocratizzata. Nei due fronti prevale lo spirito dell’auto conservazione. Le novità come la FIGEC possono essere un grimaldello».
– La tua è stata una storia professionale esaltante, quale fase della tua vita ami ricordare di più?
«A fine marzo avrò la medaglia dei 50 anni di professione. Ho avuto la fortuna di aver lavorato in un settimanale (Tempo Illustrato), in un quotidiano (Il Messaggero), in Rai e a Mediaset. Ogni periodo professionale ha la sua storia. I cinque anni come corrispondente da Parigi sono indelebili. L’aver inventato la televisione del pomeriggio in Rai, con la trasmissione Cronaca in diretta (che è in onda da oltre trent’anni) è stato un salto di qualità. La direzione della Tgr e la vice direzione del Tg5 mi hanno visto dietro scrivania, ma sempre paterno per la crescita professionale dei colleghi e il lavoro di squadra. Mi fa anche piacere ricordare che ho firmato o suggerito l’assunzione di oltre trecento giornalisti».
– L’inchiesta a cui sei rimasto più legato nel tempo?
«Direi due. Quelle sulla mafia, sulla carta stampata e in Rai, vissute anche pericolosamente e per alcuni anni sotto scorta. E quella sui “Miracoli”, in Rai e a Mediaset, sui fenomeni soprannaturali riconosciuti dalle varie religioni, che nessuno aveva prima raccontato in televisione (e anche descritti in due miei libri)».
– Se dovessi tornare indietro, rifaresti questo mestiere?
«Assolutamente sì e non solo per tradizione familiare (un nonno che aveva una tipografia, un papà giornalista e critico letterario). Non c’è nulla di più emozionante del raccontare le emozioni altrui».
– Se ti chiedessero di tornare in campo preferiresti farlo alla televisione o ti piacerebbe tornare alla carta stampata?
«Indifferente. Ma è ancora il mio tempo?».
– Direttore, come immagini il futuro della professione?
«Non sono un inguaribile ottimista, come si sarà compreso nelle risposte precedenti. In epoca social, dove chiunque può credersi giornalista, occorre ridisegnare la figura del professionista nell’universo tecnologico. E questo può essere fatto solo ritrovando una sana autonomia professionale».
– In bocca al lupo allora!
«Viva il lupo, naturalmente». (giornalistitalia.it)
Pino Nano
ISCRIVITI ANCHE TU ALLA FIGEC!