ROMA – Walter Tobagi fu ucciso barbaramente perché rappresentava ciò che i brigatisti negavano e volevano cancellare. Era un giornalista libero, che indagava la realtà oltre stereotipi e pregiudizi, e i terroristi non tolleravano narrazioni diverse da quelle del loro schematismo ideologico.
Era un democratico, un riformatore, e questo risultava insopportabile al fanatismo estremista. Era un uomo coraggioso che sentiva il dovere di difendere i valori costituzionali: proprio questa sua coerenza lo ha portato a esporsi e a divenire bersaglio di una violenza la cui disumanità non si attenua con il passare degli anni.
In uno dei suoi ultimi articoli Tobagi scrisse dei brigatisti, descrivendo le loro fragilità e contraddizioni, pure in una stagione in cui continuavano a far scorrere tanto sangue. Non sono «samurai invincibili», sottolineò. Forse anche questo mosse la crudeltà della mano assassina.
Tobagi è morto giovanissimo. A trentatré anni aveva già dimostrato straordinarie capacità, era leader sindacale dei giornalisti lombardi, aveva al suo attivo studi, saggi storici, indagini di carattere sociale e culturale. È stato ucciso in quei mesi, in cui altri uomini dello Stato, altri eroi civili, cadevano a Milano e in tutta Italia per fedeltà a quei principi di convivenza che la mitologia rivoluzionaria, le trame eversive, le organizzazioni criminali di diversa natura volevano colpire.
A quarant’anni da quel 28 maggio 1980, desidero anzitutto esprimere i miei sentimenti di vicinanza alla famiglia Tobagi. Costretta a sopportare il dolore più grande, ha contribuito, con forza e dignità, a tenere viva quella testimonianza.
Per il suo giornale Walter Tobagi è più di un simbolo: è esempio di un giornalismo libero, che non si piega davanti alla minaccia, che non rinuncia allo spirito critico nel raccontare la realtà, che vive nel pluralismo. Questo giorno di memoria è importante per il «Corriere della Sera», che ha avuto in Tobagi una delle sue firme più prestigiose, e lo è per tutta la stampa italiana: la società è cambiata in questi decenni, ma la sfida della libertà, dell’autonomia, dell’autorevolezza della professione giornalistica è sempre vitale. Il desiderio di scavare nella realtà per portare alla luce elementi nascosti, oltre a essere buon giornalismo, aiuta anche a trovare semi di speranza. Di questo abbiamo bisogno.
Sergio Mattarella
28 maggio 2020, Corriere della Sera