MILANO – La signora Caterina Malavenda, nonostante il cognome un po’ menagramante, è un eccellente avvocato, brava al punto da far vincere cause difficili (eufemismo) perfino al Fatto Quotidiano, passato da un paio di settimane dalle mani di Antonio Padellaro a quelle di Marco Travaglio. Onore al merito. Martedì però, ella ha scritto un articolo sul Corriere della Sera titolato così: «Piccoli interventi che possono migliorare (…) la libertà di stampa». Un bel pezzo, scritto bene e dal contenuto condivisibile in parte. Solo in parte, in quella teorica; in quella pratica, invece, è da respingere. Ella cita un dato incontrovertibile: l’Italia, nell’ultimo anno, che ha visto protagonista assoluto Matteo Renzi (un incompetente di successo o uno sciocchino dinamico?), è scesa nella graduatoria mondiale, relativa appunto alla libertà di stampa, dal 49º al 73º posto.
Personalmente credo poco all’attendibilità di questo genere di classifiche, soprattutto perché non mi fido di chi le stila (gente che non conosco). Tuttavia è indubbio che nel campo specifico non siamo i primi della classe; anzi, siamo gli unici nel mondo occidentale che ancora hanno un ordinamento in base al quale i giornalisti condannati per diffamazione rischiano di finire in galera. Ma il dato sfugge all’avvocato Malavenda che, nel suo elaborato, afferma il contrario: ossia che in prigione per motivi di lavoro non ci è mai andato un solo cronista. Avrebbe dovuto scrivere: raramente un redattore va dentro, ma qualcuno ci è andato, e ciò basta a disgustare e a giustificare la necessità di modificare la legge.
Il nostro direttore, Alessandro Sallusti, ad esempio, ha provato il brivido degli arresti domiciliari: 40 giorni chiuso in casa. Un collega (il calabrese Francesco Gangemi, nonostante i suoi 79 anni – ndr) un annetto fa è stato ingabbiato. E ho menzionato solo gli episodi più recenti. Superfluo dire: chi diffama va punito. L’assunto è talmente ovvio da non richiedere chiose. Ma è assurdo che un simile reato sia considerato alla stregua di un furto. Nei Paesi civili, colui il quale inavvertitamente offenda una persona deve pagare in misura proporzionale alla gravità del delitto, ma la cella no, non è prevista per il reo.
Giace da tempo in Parlamento una nuova legge, che sostituisce la vecchia di tipo fascistoide se non fascista, ma la procedura è talmente lenta da farci pensare che essa non vedrà presto la luce. Se poi ci si mette anche la signora Malavenda a sollecitare ritocchi del testo, la speranza di un cambiamento nel nostro mestiere corre il pericolo di diventare un sogno irrealizzabile. Nel senso che la norma salvifica, qualora le correzioni suggerite dall’avvocato fossero accolte dal legislatore, non sarebbe mai varata, ma ballerebbe in eterno dalla Camera al Senato e viceversa sino alla consumazione dei secoli.
L’urgenza autentica è l’eliminazione del carcere per gli scribi. Il che non significa licenza di sfruculiare gratis – nero su bianco – il prossimo. Rimane un principio universale e, direi, inalienabile: chi sbaglia paga. Ma in denaro, non in mesi di reclusione. Il comunismo e il nazismo sono morti 70 anni or sono, uccidiamo – benché per ultimi in Europa – anche i metodi a essi cari per intimidire le teste calde armate di penna.
L’articolista del Corriere, e geniale principessa del foro, ha ragione quando sostiene che la regola in corso di approvazione (magari lo fosse) è piena di difetti da emendare, ma se il prezzo per rimuoverli è il blocco dell’iter conviene rinunciare ai miglioramenti e portare subito a casa il risultato minimo: l’abrogazione immediata del bagno penale. Suvvia, signora giurista, mi dia retta: non fornisca un pretesto a senatori e onorevoli per insabbiare un provvedimento sacrosanto. La libertà di stampa è importante, ne siamo consapevoli, e sappiamo che si conquista anche non costringendo i giornalisti a frenare davanti alle notizie da pubblicare, nel timore di non potere replicare alle smentite o di sborsare cifre fuori dalla loro portata. Tutto vero. Però il nodo principale da sciogliere è uno solo: evitare le manette a chi informando incappi in qualche errore.
Per concludere, non dimentichiamo che la libertà di stampa (checché ne dicano i compilatori delle classifiche dedicate al nostro ramo) è sempre condizionata. Infatti i giornali non sono tutti uguali, ma tutti hanno un editore e i giornalisti attaccano l’asino dove vuole lui. Oppure cessano di scrivere. (Il Giornale)
Vittorio Feltri