MILANO – Colpo di scena in appello a Milano nel processo sull’omicidio di Andy Rocchelli, il fotoreporter pavese di 30 anni che venne ucciso da colpi di mortaio il 24 maggio 2014, mentre stava realizzando un reportage nel Donbass, zona dell’Ucraina occupata dai separatisti filorussi. Un processo che negli anni ha creato anche tensioni diplomatiche.
Vitaly Markiv, italo-ucraino ed ex soldato della guardia nazionale di Kiev, è stato assolto per «non aver commesso il fatto» e scarcerato dopo oltre 3 anni di detenzione e dopo una condanna in primo grado a 24 anni.
«Sono contenta per mio figlio, ringrazio gli avvocati e lo Stato ucraino, ho sempre creduto nella verità», ha detto la madre di Markiv con a fianco rappresentanti di Kiev. «Andrò a prenderlo quando uscirà e poi tornerò in Ucraina con lui», ha spiegato il ministro dell’Interno ucraino Arsen Avakov, presente anche oggi in aula e che ha voluto esprimere «i miei complimenti al sistema di giustizia italiano. La Corte d’appello – ha proseguito – ha accolto i nostri argomenti, anche noi vogliamo sapere tutti i dettagli sulla morte di Rocchelli, sono sicuro che saranno pubblici e sapremo la verità, ma la verità è anche che l’Italia non c’entra nulla, Markiv non c’entra niente».
Per Elisa Signori, madre del fotoreporter, invece, la versione «corretta dei fatti è quella del Tribunale di Pavia», che nel luglio 2019 condannò il 31enne italo-ucraino, «e della Procura generale di Milano» che aveva chiesto la conferma dei 24 anni.
«Leggeremo le motivazioni (tra 90 giorni, ndr) e vedremo il da farsi», ha aggiunto. Markiv fino all’ultimo ha proclamato la sua innocenza, anche con dichiarazioni spontanee prima della Camera di consiglio di 6 ore e del verdetto.
Il giovane, quando aveva 16 anni nel 2005, si era trasferito nelle Marche, dove è stato personal trainer, dj, e poi provò nel 2012 ad arruolarsi nell’esercito italiano, prima di tornare in patria a combattere. È stato processato in Italia perché ha anche la cittadinanza italiana. E per l’accusa sarebbe stato lui la “sentinella” che segnalò come sospetti il fotoreporter e il suo gruppo vicino a una fabbrica trasformata in deposito di armi dai filorussi, poco prima della pioggia di colpi. Avrebbe contribuito, dunque, “materialmente” ad aiutare chi sparò. E nell’attacco morì anche l’interprete Andrej Mironov.
Ricostruzione non accolta dai giudici d’appello. «In questo processo non si fa politica, non si prende posizione per lo Stato ucraino o i separatisti, ma qui si esamina soltanto la responsabilità per un reato», aveva evidenziato, prima che la Corte, presieduta da Giovanna Ichino, entrasse in Camera di consiglio, il sostituto pg Nunzia Ciaravolo.
Per il pg dalla difesa di Markiv (tra i legali Raffaele Della Valle) erano arrivati «riferimenti veramente inopportuni e anche per certi aspetti diffamatori per l’autorità giudiziaria» per alimentare «anche valutazioni all’esterno che sono del tutto inappropriate e vogliono gettare discredito sulla magistratura italiana».
Il pg ha chiarito, poi, che «con una lettera un ministro ucraino si è permesso di indirizzare le sue doglianze alla Corte». I difensori, invece, hanno insistito sempre sul fatto che non ci fosse alcuna prova della responsabilità di Markiv nell’uccisione.
«Sono stati colpiti ripetutamente – aveva detto ancora il pg – con armi mortali e questo contravviene alle convenzioni internazionali che considerano inammissibile che in qualunque conflitto si utilizzino queste armi contro civili inermi».
Nel processo erano parti civili, oltre alla famiglia Rocchelli, la Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana) e Alg (Associazione lombarda giornalisti) e il collettivo fotografico Cesura. Revocati dalla Corte i risarcimenti che in primo grado erano anche a carico dello Stato ucraino, responsabile civile. Scontato che si arriverà anche in Cassazione, dopo il ricorso della Procura generale. (ansa)