MILANO – Mariastella Gelmini un paio di anni orsono mi promise che si sarebbe impegnata a cambiare la legge sulla diffamazione a mezzo stampa, ormai superata, resa ridicola o tragica (dipende dai punti di vista) dalla mutata realtà.
Una legge talmente assurda che prevede ancora il carcere per i giornalisti che commettano il citato delitto. Conosco l’obiezione di molta gente ignorante, nel senso che ignora il problema in questione: tutti coloro che sgarrano devono andare in galera, inclusi i redattori. Un’idiozia. Intanto, perché in Italia è più facile finisca dentro un innocente che non un colpevole. Inoltre, se un cittadino viene diffamato è giusto che sia risarcito. Come? Con una somma congrua, utile a riparare il danno subito.
L’offeso merita un pacco di soldi. Se ne frega che chi lo ha ferito sia ingabbiato gratis. Primum incassare, deinde philosophari. Concetto elementare. Se tu mi fratturi una gamba con la motocicletta, pretendo del grano, non che ti rinchiudano in carcere. Ho un po’ insistito sul concetto della reclusione ingiusta nella speranza che entri nella testolina del legislatore. Al quale avevo consigliato: invece di studiare nuove norme sostitutive delle vecchie, copia quelle in vigore in Inghilterra, madre della democrazia e della libertà di stampa.
Pur di tirarla per le lunghe, viceversa, i parlamentari non mi hanno ascoltato: hanno lavorato in proprio, vergando un testo discutibile e peggiore di quello britannico. Però, va dato loro atto di essersi almeno dati una mossa. Meglio tardi, e male, che mai. Cosicché le regole di fresco conio sono in dirittura d’arrivo: manca ancora una spintarella del Senato, poi, a Dio piacendo, saranno inserite nel codice. Un grazie a Mariastella Gelmini: senza il suo impegno, il tintinnio delle manette chissà per quanto tempo ancora sarebbe stato la colonna sonora del nostro maledetto lavoro di cronisti.
Nonostante ciò, la legge in corso di definitiva approvazione viene criticata dalla nostra categoria. Non a torto. Sparita la prigione dal destino dei giornalisti, spunta un altro rischio: pagare multe salate. Personalmente, preferisco una sanzione economica alla detenzione. De gustibus. Poi, c’è il rischio che un collega recidivo (lo è e lo può diventare chiunque faccia questo mestiere) sia condannato, anziché alla cella, alla disoccupazione. Chi è in grado di emettere una simile orrenda sentenza? L’Ordine degli scribi, una consorteria priva di significato, esistente solo in Italia e in nessun altro Paese civile (eccetto l’Albania, forse), i cui capetti o loro delegati hanno diritto di vita e di morte sugli iscritti.
Se tu, casomai, stessi sulle briciole a costoro, perché non sei né comunista né fascista, hai l’obbligo di tremare: le probabilità che ti castighino sono elevatissime. La mia storia personale è paradigmatica. Per ben due volte ho sfiorato la radiazione. Eugenio Scalfari, a causa della vicenda Sifar, nel 1968 venne condannato dal tribunale ed evitò il carcere grazie all’immunità parlamentare (che egli si era garantito facendosi eleggere deputato nelle liste del Psi). L’Ordine allora chiuse un occhio o, meglio, entrambi, e gli risparmiò qualsiasi sanzione disciplinare.
Questo per dire, e dimostrare, che se sei di sinistra vai sul velluto, altrimenti a glutei nudi strisci sulla carta vetrata. Pertanto, se il nostro fosse un Paese con un minimo di dignità, abolirebbe l’albo dei giornalisti che serve solamente a infinocchiare chi non fa parte della corte dei miracolati, e a glorificare tutti i compagnucci, compresi i pregiudicati. Non so se mi sono spiegato. A onta della verità, il suddetto albo eterno dura, come l’inferno. È indispensabile a dare lustro a chi non ne ha e a toglierlo a chi se l’è guadagnato sul campo. Ecco perché chiediamo un ulteriore sforzo ai signori parlamentari: depennate con un rigo la legge istitutiva dell’Ordine, in modo da restituire alla professione giornalistica quei caratteri di liberalismo di cui essa gode in tutto il mondo, eccetto che nella nostra vituperata patria.
Eliminare la galera per i pennini è un atto doveroso, seppellire la corporazione è un gesto di carità cristiana e un omaggio alla logica. E se ai dirigenti del disciolto Ordine venisse a mancare un introito, pazienza: potrebbero guadagnarsi l’equivalente scrivendo. Non è mai troppo tardi per imparare a farlo. (Il Giornale)
Vittorio Feltri