ROMA – Da quando con Marco Pratellesi siamo arrivati in Agi, il 3 ottobre scorso, abbiamo sempre cercato un dialogo con i lettori. Un po’ per carattere e molto perché nell’era della comunicazione digitale quel dialogo è naturale, scontato e obbligato. Nel senso che puoi anche provare a sottrarti, ma le persone leggono, reagiscono e commentano. E se tu non rispondi hai perso.
Ma c’è una ragione più profonda per cui abbiamo subito aperto le porte del cantiere dell’Agi a chi volesse seguire il nostro lavoro: e la ragione è che spesso, quasi sempre, con il contributo degli altri il tuo lavoro lo fai meglio. Il che non vuol dire abdicare alla funzione del giornalista e al nostro diritto/dovere di raccontare le cose come stanno e come le vediamo.
Il “giornalismo diretto” come la “democrazia diretta” non è secondo noi la strada migliore per una informazione di qualità (una volta parlando dei citizen journalists, Gianni Riotta ha detto: «Provate voi a farvi levare un dente da un citizen dentist e poi ne riparliamo»).
Quale ruolo per i lettori allora? Fondamentale, secondo noi, proprio grazie al digitale. Mi spiego meglio. Quando abbiamo iniziato questo mestiere, più di trenta anni fa ormai, le opinioni dei lettori ci arrivavano con delle lettere, nel migliore dei casi scritte a macchina, più spesso a mano (e ti toccava decifrarle, se ne avevi voglia). Ora, conoscete le Poste ialiane, negli anni 80 era molto peggio. Arrivavano una, a volte due settimane dopo che avevi scritto il pezzo, e ci potevi fare poco, quella storia quasi sempre era morta e sepolta. E così la lettera del lettore. Poi c’è stata una fase di telefonate: credo che avesse iniziato Paese Sera, un bel giornale che non c’è più; in ogni caso a Repubblica, dove collaboravo in cronaca, ogni tanto aprivamo le linee telefoniche in un certo orario per sentire “la voce dei lettori”. Era emozionante, credetemi sulla parola voi che siete nati con Skype e Whatsapp. Quella voce ci diceva che i lettori erano vivi, reali: e quindi, in un certo senso anche noi che lavoravamo per loro ogni giorno.
Infine ci sono stati gli anni dei fax, del popolo dei fax: iniziò con Mani Pulite, all’inizio degli anni ’90, ma è durata a lungo. Ricordo bene che nel 2003 il direttore di un grande quotidiano partì lancia in resta contro un personaggio molto noto chiedendone le dimissioni. Invitò i lettori ad aderire alla campagna mandando un fax. Lavoravo in quel giornale e ricordo bene che ne arrivavano centinaia ogni giorno. E lui ogni giorno pubblicava una paginata di “Vattene!”, rivolta al personaggio molto noto. È andata avanti una settimana intera e poi se ne è andato: il direttore però.
Questo per dire del peso che avevano i fax. Sempre a Repubblica, all’apice del confronto con il premier Silvio Berlusconi, c’è stato “il popolo dei post-it”, le persone si fotografavano con un post-it sulla bocca per protestare contro la legge-bavaglio. Ma quella era già l’epoca di Internet: il motore di quella campagna era la rete e quelle foto oggi le chiamiamo selfie.
Il dialogo che abbiamo in mente è però un’altra cosa ancora. È un dialogo, appunto. È quella cosa per cui un lettore ci corregge un errore piccolo o grande (grazie!), ci suggerisce una pista su cui lavorare, ci fa riflettere su una cosa che non avevamo notato. Per questo il giorno in cui mi sono insediato ho aperto una casella di email dedicata a voi, dir@agi.it. Per questo da oggi apriamo Casa Agi, un blog collettivo della redazione dove raccontarvi le nuove iniziative dell’Agenzia, ma soprattutto dialogare con voi. Lo facciamo in un momento critico, quando gli occhi di tutti sono puntati sulle storture della rete, sulla violenza dei commenti che leggiamo sui social, sulle bufale e sul bullismo. Lo facciamo mentre si alzano muri e si chiudono le porte al dialogo con chi non la pensa come noi.
Lo facciamo per crescere assieme voi e per dare voce a tutti gli altri. Scriveteci, commentateci, criticateci: ci aiuterete a fare un giornalismo migliore.
Riccardo Luna
Direttore AGI