ROMA – Una donna sola, la prima, tra 120mila uomini a tifare Iran. Ventidue anni prima della storica apertura di Teheran alle tifose dentro gli stadi, fu un’italiana – allora corrispondente dell’Ansa – a sfidare e bucare le difese degli ayatollah in campo calcistico.
«Pensando a quel giorno, oggi mi sono commossa», racconta Pizzuti. Prima donna al mondo, quel 22 novembre del 1997 riuscì ad entrare in uno stadio di calcio in Iran e oggi non nasconde un pizzico di emozione commentando la svolta da parte delle autorità islamiche che hanno annunciato che “le donne, inizialmente solo per le partite internazionali, potranno entrare negli stadi di calcio”.
Le proteste internazionali seguite alla morte della tifosa Sahar Khodayari hanno avuto il loro peso, ma la battaglia per la parità di genere in Iran parte da lontano. Forse anche da quel giorno, quando allo Stadio Azadi si presentò la cronista dell’Ansa a cui l’agenzia aveva chiesto un articolo, più di politica e colore che di cronaca calcistica, sullo spareggio Iran-Australia, valido per i Mondiali 1998.
«Oggi leggendo la notizia ho avuto un sussulto – racconta la giornalista, per diversi anni corrispondente a Teheran –. Sono tornata in un lampo a quel giorno, a quell’esperienza unica e bella».
Quel pomeriggio, tra gli oltre 120mila tifosi assiepati sugli spalti dello stadio di Teheran c’era anche Nadia che oggi ricorda così la sua avventura: «Da prassi, richiesi l’accredito alla Federcalcio iraniana che mi rispose che non sarebbe stato possibile. Ma non mi persi d’animo e feci la stessa cosa con il ministero della Cultura, che mi diede la stessa risposta, aggiungendo però di presentarmi lo stesso ai cancelli con il fax inviato alle autorità. E così feci. Insieme al collaboratore e traduttore arrivai ai cancelli dello stadio».
“Nemishieh”. «Ho un permesso del ministero». “Via, via”. «Mi faccia vedere il regolamento oppure chiami un suo superiore», lo scambio di battute che ricorda allora col nervoso responsabile della sicurezza, mentre intanto la partita era iniziata. Alla fine, racconta Nadia, «superati diversi sbarramenti, risposto a domande vagamente inquisitorie e frenetiche consultazioni via radio, mi dettero finalmente il via libera, nonostante la mia guida fosse terrorizzata. “Andiamocene, qui finisce male”, ripeteva».
«Forse la minaccia, l’indomani, di denunciare il fatto in un articolo — scrisse allora la Pizzuti — ha magicamente steso un tappeto rosso sotto i miei piedi, tanto da farmi diventare la prima donna a potere assistere ad una partita di calcio in Iran dai giorni della Rivoluzione». «Così, tra un “Iran, Iran” e un “Santo Alì, aiutaci tu”, arrivai alla fine in tribuna stampa dove trovai tanta collaborazione, sorrisi complici e nessun atteggiamento ostile. Con tanti colleghi — ricorda ancora Nadia Pizzuti — che oltre a tè e dolcetti mi raccomandavano solo di non lasciar spuntare ciuffi dal velo islamico che avevo sulla testa. Ho vissuto quelle due ore con grande intensità emotiva: fui trattata quasi da regina e quando la partita finì, col mio spolverino verde approfittai di un varco aperto nella rete per uscire e tornare in ufficio, accompagnata ancora dagli increduli sguardi di tanti ragazzi».
«Nei giorni a seguire – prosegue Nadia – ho ricevuto valanghe di telefonate, da colleghi italiani e non che volevano sapere. Solo la stampa iraniana non ne fece cenno, anche se dopo la partita di ritorno del playoff, che qualificò l’Iran, i giocatori furono festeggiati ancora allo stadio e in quell’occasione 5.000 donne si presentarono ai cancelli, con la Radio di Stato a invocare il rispetto delle regole islamiche».
Ventidue anni dopo, il tabù che impedisce alle donne di non calarsi nell’atmosfera “scurrile e pericolosa” degli stadi potrebbe davvero crollare. Pizzuti ne è convinta, nonostante i ripensamenti degli ultimi anni. «Credo sia un’apertura reale, così come penso che possa anche aver pesato la tragica vicenda e il sacrificio di quella povera ragazza». (ansa)