REGGIO CALABRIA – «La ’ndrangheta è un pezzo di tutto. Non è solo criminalità organizzata. È politica, è massoneria, è anche un pezzo di Chiesa. È soprattutto potere finalizzato a riciclare una straordinaria montagna di soldi che continua a fare con il traffico di droga, con le estorsioni, con tutte le attività illecite che mette in campo».
Michele Albanese, 55 anni, è un giornalista calabrese a cui il 17 luglio 2014 la ’ndrangheta ha cambiato, suo malgrado, la vita. Da quasi quattro anni vive sotto scorta. Seguito come un’ombra da due poliziotti che vigilano sulla sua sicurezza. Sotto scorta perché la ’ndrangheta avrebbe avuto un piano per ucciderlo. Di cosa sia accaduto in quei giorni Albanese sa molto poco. Sulle indagini c’è un lavoro intenso, ma assolutamente coperto dal segreto. Per questo non conosce appieno nemmeno il motivo di questa sua “nuova vita”.
Sposato e padre di due figlie di 23 e 17 anni, Albanese collabora con il Quotidiano del Sud e con l’Ansa ed è consigliere nazionale della Federazione nazionale della stampa con delega ai progetti per la Legalità. Vive nella Piana di Gioia Tauro. Un territorio che conosce passo dopo passo, raccontato in ogni suo aspetto, vissuto con un modo di fare giornalismo molto diverso da quello di chi vive dietro una scrivania, in un comodo ufficio. Un modo di raccontare le cose e le storie che, evidentemente, non è piaciuto alla ’ndrangheta: «La mia vicenda è ancora riservata e bisogna attendere, sperando che si agisca prima possibile – racconta all’Agi –. Non sono uno di quelli che si piange addosso. La scorta rende tutto difficile e non costituisce per me un elemento di visibilità, anzi, cerco di viverla con molta discrezione».
Non è facile la vita quotidiana di Albanese. Non lo è per lui e non lo è per la sua famiglia. Manca la quotidianità, così come manca quel lavoro svolto con tanta passione fino al 2014: «Non vado più al mare, faccio solo ciò che è strettamente necessario. Da noi si vive di rapporti sociali, ma ho dovuto limitare anche quelli, persino una normale passeggiata in piazza. Non è facile continuare a vivere in un paese di settemila abitanti e in un’area in cui ti conoscono tutti – aggiunge – dove è presente una certa mentalità mafiosa e si denigra chi sta dall’altra parte. C’è chi dice che anche con la scorta devi continuare a vivere come prima, ma io non credo sia così. Poche persone si avvicinano, e anche l’approccio con il mio lavoro è cambiato: prima “battevo” la Piana in lungo e in largo per raccontare fatti, oggi devo farlo in maniera diversa, ma non mi sento una vittima. Non voglio diventare un personaggio, voglio tornare a essere un uomo libero».
Nonostante queste difficoltà, Albanese mantiene una grande forza d’animo e tanto coraggio anche rispetto alle posizioni da assumere: «Non voglio diventare un protagonista, non voglio essere collocato su un piedistallo di cartone. Non mi sento una madonnina antimafia da portare in giro al bisogno, cerco di vivere questo momento della vita con responsabilità e con impegno e spero prima possibile che tutto ciò finisca. Impegnarsi a rinunciare a pezzi di libertà quotidiani e personali – afferma – alla fine ti logora, ti isola e ti racchiude in un recinto dal quale è difficile uscire. Soprattutto se le forme di isolamento vengono anche costruite da pezzi del tuo mondo. Mi riferisco al mondo dell’informazione, che spesso ritiene che il giornalista minacciato o sotto scorta possa conquistare posizioni di chissà quale natura. Io posso dire che precario ero e precario sono rimasto». (agi)