PALERMO – «Si è già detto dei rapporti provati che legavano gli ARDIZZONE, proprietari ed editori del “Giornale di Sicilia”, a parecchi esponenti mafiosi, tra cui Michele GRECO e Tommaso SPADARO e della scelta operata dagli ARDIZZONE su persone da adibire ad incarichi direttivi all’interno del quotidiano cui attribuire l’eventuale responsabilità di una campagna contro l’organizzazione mafiosa».
Questa non è una battuta della fiction “Delitto di mafia, Mario Francese”, il film di Gigi Burlano prodotto dalla TaoDue di Pietro Valsecchi per la regia di Michele Alhaique, andato in onda ieri sera su Canale, ma un passo della sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo che, il 13 dicembre 2002, ha confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo appellata dagli imputati Salvatore Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Leoluca Bagarella e Giuseppe Calò e dal Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia presso il Tribunale di Palermo nei confronti di Giuseppe Madonia, condannando tutti gli imputati appellanti al pagamento solidale delle ulteriori spese processuali.
In questi due giorni si è scritto molto su questa storia e si continua a scrivere appellandosi, da un lato, alla libertà di stampa, dall’altro alla mistificazione. Certo è che, a 39 anni da quel maledetto 26 gennaio 1979, c’è voluta la fiction magistralmente interpretata da Claudio Gioè (Mario Francese), Marco Bocci (Giuseppe Francese), Romina Mondello (la moglie di Mario) e Orlando Cinque (Giulio Francese) per far conoscere agli italiani una pagina nera della storia d’Italia che molti, troppi, vorrebbero rimanesse chiusa per sempre nei polverosi archivi non solo della nostra storia, ma soprattutto della nostra memoria e della nostra coscienza.
Nella stessa sentenza (Vincenzo Oliveri presidente, Gianfranco Garofalo consigliere, Giovanni Incandela, Giovanni Garofalo, Isabella Zummo, Nicola Turrisi, Antonio Riggio e Giuseppe Giammarinaro giudici popolari), con l’intervento del sostituto procuratore generale Antonio Gatto e l’assistenza del cancelliere Aurelio Di Cristina, si legge che «l’omicidio di FRANCESE, già fortemente voluto da tempo dai vertici di Cosa Nostra, viene preceduto dai due episodi intimidatori nei confronti di Lino RIZZI e Lucio GALLUZZO (quest’ultimo episodio, anzi, doveva suonare a mò di monito per Michele GRECO, cui si rimproverava di non riuscire a controllare i suoi “amici” ARDIZZONE).
Non appena il FRANCESE subisce un attacco di cuore nasce, evidentemente, la convinzione che lo stesso possa essere indotto ad abbandonare la cronaca giudiziaria. Invece, un mese prima, circa, dell’omicidio tale progetto non soltanto viene abbandonato, ma si rafforza in FRANCESE la convinzione di dare alla stampa – anche sotto forma di libro – il dossier da lui redatto.
Non è un caso che DI CARLO abbia fatto riferimento alla riunione della Commissione Provinciale di Cosa Nostra nel corso della quale venne deliberato l’omicidio di FRANCESE, tenutasi proprio un mese prima circa di quando avvenne.
Ed è stato già riportato quanto affermato dai collaboratori circa la fuga di notizie che avveniva dall’interno del Giornale di Sicilia in favore di alcuni esponenti di Cosa Nostra.
Certamente, con l’omicidio di Mario FRANCESE, l’organizzazione mafiosa raggiunge molteplici importanti obiettivi ad essa favorevoli: l’eliminazione dell’unico – in quel momento – cronista particolarmente scomodo per le sue capacità di analisi sugli interessi ed equilibri dell’organizzazione medesima, non diversamente paralizzabile; il rinvio della pubblicazione del c.d. “dossier”; l’allontanamento, volontario (coactus tamen voluit!), di Lucio GALLUZZO e Lino RIZZI dal quotidiano e l’assunzione della sua direzione da parte dello stesso ARDIZZONE.
E costituisce, ormai, un dato storico che, da quel momento, – sottolinea la sentenza – la linea editoriale del “Giornale di Sicilia” muta radicalmente, sino a divenire, negli anni dei pentimenti di BUSCETTA e CONTORNO e del primo maxi-processo, uno dei più feroci oppositori e critici dell’attività dei giudici componenti del c.d. pool-antimafia, definiti sceriffi e professionisti dell’antimafia ed attaccati quotidianamente con incisivi e dotti corsivi».
In un altro passo della sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo è scritto: «L’omicidio di Mario FRANCESE convinse Lino RIZZI che il giornale da lui diretto “era stato ormai preso nel mirino» … «Lo stesso RIZZI aveva subito un attentato incendiario nella notte del 22 settembre 1978» … e «un altro grave gesto intimidatorio fu realizzato circa un mese dopo, in danno del capo cronista del “Giornale di Sicilia”, Lucio GALLUZZO. In data 24 ottobre 1978 … giunse la notizia che si era sviluppato un incendio in un villino … di proprietà di Lucio GALLUZZO … L’incendio, che distrusse o danneggiò le porte e finestre interne ed esterne e bruciò tutto quanto si trovava nel primo piano dell’immobile … Nelle sommarie informazioni rese il 30 ottobre 1978, il GALLUZZO fece riferimento al precedente incendio dell’autovettura utilizzata dal RIZZI ed aggiunse: “il fatto che nel giro di due mesi e con modalità analoghe in quanto al mezzo (la benzina) siano stati colpiti due giornalisti dello stesso Giornale di Sicilia, mi induce a ritenere che possa esservi un nesso tra i due episodi”.
Il GALLUZZO dopo il predetto episodio intimidatorio avvertì un forte senso di solitudine. Nel verbale di sommarie informazioni testimoniali del 6 febbraio 1979 egli ha riferito: “Dovetti registrare con profondo rammarico e comprensibile turbamento che all’incendio di casa non fece seguito alcun atto di solidarietà di gran parte dei colleghi e dell’organo rappresentativo sindacale interno”. La notizia dell’attentato non fu pubblicata sul “Giornale di Sicilia”. Il GALLUZZO si dimise dal suo incarico di capo cronista del “Giornale di Sicilia” e cessò l’attività lavorativa con decorrenza dal 30 dicembre 1978; il 1° gennaio 1979 ritornò a lavorare presso l’A.N.S.A».
«Nel verbale di assunzione di informazioni del 14 aprile 1998, – si legge ancora nella sentenza – il GALLUZZO ha precisato: “la mia decisione di lasciare il Giornale è stata determinata dalla constatazione della sostanziale solitudine nella quale, di fronte a gravi episodi, tanto io quanto il Direttore ci venimmo a trovare. Il che non significa che io non avessi paura. Anzi la consapevolezza di quella solitudine ha ingigantito la paura, che già si era dilatata, dopo l’incendio della villa, coinvolgendo la mia famiglia. Resomi conto della situazione venutasi a creare, decisi di andarmene e invitai Lino RIZZI, da amico, a fare lo stesso”.
Circa due anni dopo, Lino RIZZI lasciò l’incarico di direttore del “Giornale di Sicilia”, che aveva assunto nei primi giorni del mese di gennaio del 1977; al riguardo, nel verbale di assunzione di informazioni dell’8 gennaio 1977, il RIZZI ha dichiarato: “alla fine del 1980, dopo che erano stati commessi a Palermo una serie di omicidi eclatanti, quali quello di Boris GIULIANO, del giudice TERRANOVA, di MATTARELLA, e dello stesso FRANCESE, omicidio questo che mi aveva convinto del fatto che il Giornale da me diretto era stato ormai preso nel mirino, ho maturato la convinzione di interrompere quella esperienza professionale. Ero solo a Palermo, senza la mia famiglia, ed il clima era certamente divenuto pesante. Io stesso ero stato oggetto di un attentato, ed allo scadere dei quattro anni ho manifestato agli editori la mia intenzione di lasciare il Giornale di Sicilia”».
Tutto ciò – ribadiamo – è scritto nella sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo che pubblichiamo in coda a questo articolo e consigliamo di leggere attentamente per comprendere fatti e contesti.
Doverosamente aggiungiamo anche che, dall’agosto 2017, dopo 157 anni di monopolio della famiglia Ardizzone, il pacchetto di maggioranza della holding che controlla il quotidiano Il Giornale di Sicilia, è stato acquisito dalla Ses, società editrice della Gazzetta del Sud di Messina.
Considerazioni finali. Premesso che una fiction non è un documentario, quindi ammette una buona dose di libera interpretazione, riteniamo che “Delitto di mafia, Mario Francese” sia un capolavoro perché ci fa conoscere una storia che nessuno ci ha mai raccontato. La storia di una famiglia perbene che, con coraggio e dignità, ci insegna che la professione giornalistica – amata e vissuta come ha fatto la famiglia Francese (con l’immenso dolore per la perdita delle persone più care, un padre e un fratello, ma soprattutto nell’assordante silenzio che l’ha accompagnata in tutti questi anni) – è davvero l’ultimo baluardo della libertà e della democrazia. Che da giornalisti facciamo bene a difendere, senza se e senza ma.
Grazie, dunque, famiglia Francese per averci regalato – pagando il prezzo più pesante di questa vita – la forza di continuare a credere che, grazie a gente come voi, valga la pena lottare per un mondo migliore. (giornalistitalia.it)
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