COSENZA – In Italia è possibile imbavagliare la stampa e anche insultare chi si ribella a pressioni o censure, offenderne pubblicamente l’integrità morale e professionale, con il beneplacito della “giustizia”. È la sconcertante e triste conclusione alla quale sono arrivato dopo una surreale sentenza del Tribunale di Roma, del 1° giugno scorso, l’ennesima vicenda ai limiti del farsesco tra quelle susseguitesi nei tribunali dopo la notte tra il 18 e il 19 febbraio 2014, la notte in cui di fatto fu impedito all’Ora della Calabria, il quotidiano di cui ero direttore, di andare in edicola, poiché mi rifiutai di togliere la notizia relativa all’apertura di un’indagine a carico del figlio del senatore Tonino Gentile (oggi sottosegretario allo sviluppo), di nome Andrea Gentile (oggi a sua volta membro del Consiglio d’Amministrazione dell’Istituto dei Tumori di Milano, su segnalazione diretta del ministro della salute, Beatrice Lorenzin).
La richiesta martellante di soprassedere su questo fatto di cronaca (l’apertura di un’inchiesta della magistratura sulle cosiddette consulenze d’oro elargite dall’Asp cosentina, indipentemente dalle effettive responsabilità di Gentile jr che verrà poi riconosciuto innnocente) arrivava dallo stesso stampatore del giornale, Umberto de Rose, che parlava con l’editore, in nome e per conto del senatore stesso, presentandosi come suo «garante»e e minacciando pesanti ritorsioni anche sul mio conto se non mi fossi lasciato convincere: «Devi dire a questo c… di Regolo che ci sono persone influenti che non vogliono che esca questa notizia e che farebbero male anche a lui e al giornale, perchè lo sai com’è: il cinghiale quando è ferito ammazza tutti». Saviano scrisse che questa conversazione era «una summa di tutte le subculture mafiose», la Bindi dichiarò a caldo ai tg che «conteneva materiali utili per la Commissione Antimafia».
Va chiarito che il De Rose, legato da lunga e vecchia amicizia con Tonino Gentile, non è mai stato querelato da quest’ultimo per come usò il suo nome, quella notte, per esercitare pressione e questo nonostante il sottosegretario, continui a sostenere, a propria difesa, di essere stato vittima di un «complotto mediatico»: quelle frasi minacciose che io registrai, però le pronunciò un suo sodale e non un suo nemico. Le pronunciò una persona che chiamò spontaneamente e ossessivamente più e più volte, per ottenere il suo scopo fino a tarda notte: io registrai quella conversazione trovandomi con l’editore nella sua auto, mentre De Rose lo chiamava dopo che avevo appena dato “l’ultimo visto si stampi” a quel numero del quotidiano. Chiamava per ricordare fra l’altro all’editore, Alfredo Citrigno che «loro», i Gentile, padre e figlio, dopo aver mandato «signali» di pace, «stanno aspettando una risposta», ossia volevano essere rassicurati sul fatto che io avrei «cacciatu sa’ notizia».
Da allora Gentile non ha mai neppure preso pubblicamente le distanze dallo stampatore che all’epoca dell’orrenda telefonata era pure presidente di Fincalabra e aveva reclutato entrambi i figli del senatore in ben remunerate mansioni per la finanziaria regionale, poi finite (pure esse) sotto il mirino della magistratura. Ebbene: De Rose, avuta la certezza che non mi sarei piegato alla richiesta censoria simulò un guasto alle rotative dei suoi stabilimenti di Montalto Uffugo e non fece andare in edicola il quotidiano. Il 19 febbraio mattina nessun calabrese trovà in edicola l’Ora e che non ci fu in realtà alcun guasto è stato già stabilito, da quasi un biennio, da una perizia disposta dalla Procura di Cosenza, dopo il rinvio a giudizio dello stesso stampatore per tentata violenza privata.
Questa lunga premessa è doverosa per comprendere fino in fondo l’assurdità della recentissima pronuncia del Tribunale di Roma, che ha assolto Umberto De Rose dall’accusa di diffamazione a mio danno. In un’intervista al quotidiano La Repubblica, pubblicata il 5 marzo 2014, poco più d’un paio di settimane dopo la censura, lo stampatore, riferendosi alla conversazione notturna con l’editore Alfredo Citrigno, da me registrata, aveva dichiarato: «C’è un direttore che mi registra e usa tutto per le sue orge mediatiche. Perchè? Cosa devo pensare se non che ci sia stato un trappolone per abbattere il loro nemico?». È evidente la portata offensiva (oltre che beffarda considerando lo scenario sopra riassunto) di queste parole con cui mi dipinse non soltanto come un tessitore di “orge mediatiche” (mentre dovetti registrare quella telefonata solo per poter difendere la libertà e l’autonomia di un’intera redazione), ma anche come un oscuro complice di “trappoloni” e schieramenti in fronti poco chiari, a me per altro sconosciuti.
Ebbene inaspettatamente il giudice, Maurizio Caivano, lo scorso 1° giugno ha respinto la richiesta di rinvio a giudizio del pm a carico di De Rose. Ho atteso col mio legale, Claudia Danisi, la sentenza per cogliere una qualche eventuale motivazione logica, sensata, almeno trasparente nel senso di chiara a tutti. Invece nelle sette pagine che ho letto e fatto leggere a vari esperti, di diritto, di lingua italiana, di editoria, si capisce ben poco. Il dispositivo conclude che lo stampatore «ha voluto esprimere il proprio disappunto per la risonanza mediatica che aveva avuto la pubblicazione della telefonata intercorsa col suo editore Citrigno, muovendo in tal senso critiche al Regolo che aveva provveduto alla registrazione della conversazione. In tale contesto il linguaggio e il tono utilizzati dal De Rose, senza risultare pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della conseguente critica esercitata, appaiono adeguate e proporzionali alla finalità perseguita».
A questa chiosa agghiacciante si arriva sostanzialmente con due argomenti. Il primo: il grande clamore sui media nazionali del cosiddetto “Caso Gentile”, tale da rendere, legittima l’espressione orge mediatiche, almeno secondo il giudice che, curiosamente, nella corposa sentenza cita anche le parole di Angelino Alfano, ministro della giustizia, quando, difendendo il compagno di partito, Tonino Gentile, costretto a dimettersi per lo scandalo da sottosegretario alle infrastrutture pochi giorni dopo la nomina, disse: «Il suo diritto alla difesa è stato calpestato dall’onda mediatica, ora da persona libera si difenderà». Ma Gentile, ripeto, non si è mai difeso querelando l’unica persona che l’ha dipinto come il cinghiale vendicativo: ossia il suo amico Umberto De Rose, col quale tra il 18 e il 19 febbraio parlò al cellulare, come risulta dai tabulati telefonici, fino a due minuti dopo la chiamata che io registrai, a notte fonda (risultano in totale una trentina d’impulsi, con tanto di frenetiche chiamate ripetute del senatore allo stampatore mentre la linea del primo era occupata , durante la conversazione con Citrigno che io registrai).
In ogni caso, un conto è parlare di “onde”, un altro di “orge” mediatiche, un altro ancora è sostenere come fece De Rose, che io adoperai la registrazione per orge mediatiche a fini personali (disse testualmente “per le sue orge mediatiche”): in quest’ultimo caso, infatti, si allude chiaramente a una montatura a proprio vantaggio. Ebbene, lo stesso giudice riporta nella sentenza la data in cui io diffusi la registrazione on line, il 28 febbraio, ossia ben 9 giorni dopo l’accaduto. E la ragione di quest’attesa, come tutti i miei colleghi sanno e potrebbero testimoniare, fu un rispettoso riserbo finchè la Procura di Cosenza ne acquisisse copia, considerando prioritrario su ogni altro aspetto, il dovere civico e la difesa di diritti che oggi vedo così mostruosamente calpestati, se non irrisi.
È strano che, pur ricostrunendo con dovizia di particolari lo scenario politico dell’Oragate, la sentenza invece trascuri questi aspetti, dimentichi che, nel frattempo, c’era stato un finto guasto delle rotative, e una richiesta del De Rose dell’intero ammontare del suo credito di svariate centinaia di milioni all’Editore (prima mai richiesto o sollecitato in alcun modo) volendone provocare il fallimento, salvo in un secondo momento, tra il marzo e l’aprile 2014, dopo aver stretto un’intesa con lui, voler acquisire la proprietà stessa del giornale. È strano che non risulti in alcun punto, come il gran clamore non poteva non scaturire poiché in uno Stato Democratico una rotativa era stata bloccata ad arte, come accadeva soltanto nel ventennio fascista e poiché la persona a vantaggio della quale la censura era stata operata proprio in quei giorni era stata nominata sottosegretario da un premier che diceva di voler rottamare l’Italia dei potentati oscuri. È strano che una sentenza di 7 pagine citi più volte l’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di stampa e di manifestazione del pensiero assolvendo chi ne ha malamente impedito l’esercizio a un’intera redazione, vanificandone per giunta anche il lavoro eseguito fino a tarda notte.
La verità è che quella registrazione fu la sola possibilità di difesa per i miei colleghi e per me. E resta tuttora l’unica traccia di una realtà oscura che forse qualcuno vuole a tutti i costi insabbiare, di una situazione fosca che forse si vuole rendere ancora più confusa. Ne è un chiaro indizio anche il secondo argomento usato dal giudice romano per l’incredibile assoluzione: De Rose con le frasi sul mio conto «ha inteso unicamente criticare con linguaggio aspro ma misurato, il predetto comportamento (registrare a sua insaputa la telefonata, ndr) che a suo parere intendeva soddisfare esclusivamente una finalità che fuorviava dai canoni deontologici ai quali ogni giornalista si dovrebbe attenere che, mediannte il risalto della notizia anche sul quotidiano da lui diretto, faceva “pensare” ad una manovra diretta a scalzarlo dal suo ruolo di direttore di un quotidiano a tiratura nazionale».
Rivolgo un pubblico appello: chiunque capisca che cosa significhi questa frase, me la spieghi: neppure il mio legale l’ha compresa. Nessuno delle persone alle quali mi sono rivolto. Solo un casuale uso improprio della lingua? Oppure vanno colti significati reconditi? Non credo però che una sentenza debba illustrare le motivazioni in termini criptici. Quella frase oscura significa forse che il giudice abbia giustificato il De Rose perchè indotto a “pensare” che io con la divulgazione della telefonata volessi salvare la mia poltrona, cosa ancora più offensiva e, in una certa accezione, ancora più inquietante? Quale sarebbe la testata nazionale, visto che l’Ora della Calabria era una testata regionale ed ero stato assunto appena tre mesi prima dall’editore? Chi sarebbe dunque l’autore della “manovra” per privarmi del mio ruolo se non lo stesso soggetto che mi ha diffamato e i suoi sodali? Non seguo propria la logica del giudice, ne riscontro motivazioni valide e plausibili alla sua decisione.
Non riconosco in questi meccanismi lo Stato di diritto in cui ho sempre creduto. E come potrei? Io sarei andato oltre la mia deontologia professionale (questo è l’unico passo che è chiaro della frase di cui sopra, ndr) mentre come tutti sanno l’art 6. del contratto nazionale giornalisti indica tra i doveri del direttore proprio quello di difendere l’autonomia della testata e la facoltà di adottare le decisioni necessarie a garantirla?
Come se non bastasse, il processo a Cosenza, quello per tentata violenza privata a carico del De Rose, nel quale lo stampatore è difeso da Franco Sammarco, lo stesso legale che l’ha assistito nella causa romana, continua a subire rimandi, con strani e ripetuti errori nelle notifiche. Lo scorso 6 giugno, finalmente, avrei dovuto essere sentito (oltre due anni dopo i fatti) ma ancora una volta non mi è arrivata alcuna notifica perchè era stato scritto l’indirizzo con un numero civico errato. L’ennesima “distrazione” di questo tipo e nessuno che si cura di acccertarsi se si nasconda qualcosa dietro tali, reiterate anomalie che, alla lunga, potrebbero far scattare la prescrizione.
Nell’era di Renzi, “rottamatore” solo a parole, chi alza la testa contro il sopruso è isolato, imbavagliato: noi giornalisti dell’Ora proprio il 15 giugno veniamo licenziati dopo due anni di cassaintegrazione, la testata chiusa e l’oscuramento totale del sito (quest’ultimo del tutto illecito e immotivato da parte del liquidatore della società editirice. Le persone invece nel cui nome si perpetrano minacce ricevono nomine e incarichi di prestigio, e i minacciatori stessi, assoluzioni ai limiti del surreale e altri provvidenziali aiuti…
Luciano Regolo