ROMA – Non è solo questione di procurato allarme (art. 658 codice penale) e di diffusione di notizie false esagerate o tendenziose (art. 656 codice penale), che sono reati e che sono perseguiti nei confronti di chiunque.
L’informazione ai tempi del Coronavirus coinvolge l’etica e la responsabilità del giornalista ben oltre il dettato delle leggi e delle carte deontologiche; è una questione ontologica, potremmo dire. Coinvolge il nostro essere giornalisti. E purtroppo dobbiamo osservare che, quantunque iscritti all’Ordine, taluni tra noi forse “fanno” i giornalisti, ma giornalisti non sono.
Bene hanno fatto l’Associazione Lombarda Giornalisti ad invitare ad attenersi alle disposizioni delle autorità e l’Ordine ed il sindacato dei giornalisti del Veneto (una delle regioni italiane più colpite, al momento, dal Covid-19) a richiamare i colleghi alle carte etiche, dove si esplicita (ma basterebbero il buon senso ed un minimo di esperienza…) che il giornalista “evita nella pubblicazione di notizie su argomenti scientifici un sensazionalismo che potrebbe far sorgere timori o speranze infondate; diffonde notizie sanitarie solo se verificate con autorevoli fonti scientifiche” (Testo unico dei Doveri del giornalista, art. 6). Ma non basta.
L’informazione ai tempi del Coronavirus ci richiama non solo all’alta moralità della professione (moralità intesa come pratica con scienza e coscienza del diritto/dovere di informare), ma anche a rilevare come questa alta moralità, questo esercizio scrupoloso e cosciente, che presuppone però la scienza, della professione vengano troppo spesso contraddetti non solo da una mala gestione aziendale (per il proposito nemmeno più velato, degli editori di sopprimere le specificità e la specializzazione dei giornalisti per avere a disposizione una specie di tuttologo più informatico e poligrafico che giornalista, senza vere competenze, se non informatiche; una specie di copincollatore ed impaginatore di comunicati o di “informazione” precotta e predigerita sulla quale non ha alcun controllo, alcun potere ed alcuna capacità di verifica) ma anche, purtroppo, dalla disinvolta disponibilità di giornalisti in posizione apicale nelle redazioni, che avallano il frullato e la distruzione delle specifiche competenze.
È grave di per sé, costituisce in ogni caso una violazione della stessa legge istitutiva dell’Ordine (vogliamo ricordare che “giornalisti ed editori sono tenuti […] a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”, come recita l’art. 2 della legge 69/1963?); ma è gravissimo quando su temi delicatissimi, di grande impatto sociale, si affidano, imponendo per di più esasperata velocità e frettolosità, mansioni che richiedono profonde conoscenze a chi non è competente. O che, pur avendo una infarinatura in materia, non capisce quali conseguenze possano scaturire da un approccio troppo disinvolto a certi temi.
Un’enfasi eccessiva su argomenti “leggeri” produce infatti pochi danni; il ricorso al sentito dire su certe questioni non provoca catastrofi. Ma quando si affrontano temi delicatissimi come la morte, la malattia (specie a carattere epidemico o pandemico), il contagio, la sofferenza, il dolore, i farmaci e la loro efficacia, anche la minima “sbavatura” provoca danni, amplificati dalla moltiplicazione di fruitori dei nostri articoli causata dal web.
La morbosa, insistita raffigurazione del dolore, del disfacimento, della sofferenza estrema, il minuzioso, cinematografico, quasi compiaciuto indagare sui particolari più orrorifici di una malattia ha effetti devastanti sui malati, sui loro parenti, sui loro amici. Così come l’enfasi sul ritrovato miracoloso che accende false, o comunque esagerate speranze in chi è gravemente ammalato produce sì un momentaneo accendersi di voglia di vivere, ma provoca purtroppo, quando la notizia esagerata della cura risolutiva viene ridimensionata, se non smentita del tutto, un crollo non solo emotivo ma anche fisico; che in persone già debilitate ha effetti disastrosi.
Ma gli effetti sociali di una informazione disinvolta, quando non troppo carica nei toni e nelle valutazioni, rischiano di essere disastrosi in caso di epidemie e di contagio.
Esemplare il caso dell’Aids, che pure si trasmette solo per via sessuale o per sangue infetto; al suo apparire fu etichettato come “malattia dei gay”, con un duplice, gravissimo effetto: una sorta di ghettizzazione degli omosessuali (e anche lì ci fu chi, per la verità poco cristianamente, gridò alla “punizione divina”…), guardati con riprovazione e sospetto come untori; il ritardo (o la leggerezza) con la quale troppi eterosessuali non si sottoposero ad analisi, o continuarono a praticare attività sessuale non protetta, perché tanto non erano gay…
Il Covid-19 invece si trasmette per via aerea; è altamente contagioso e viaggia veloce, nel mondo globalizzato; per cui un paesino del lodigiano diventa quasi un quartiere satellite di Wuhan…
E allora anche qui la responsabilità dei mass media e dei giornalisti si fa enorme: non si può mandare i onda la vox populi; non si possono alimentare isterie addirittura a sfondo razziale; ma nemmeno si possono avallare acriticamente (il giornalismo non è una telecamera fissa, e non è nemmeno un resoconto stenografico di una seduta parlamentare o di un consiglio comunale: è sempre contestualizzazione, interpretazione, spiegazione, valutazione e, se occorra, contestazione…) le stupidaggini di chi, quale che sia la sua carica (presidente di giunta regionale o leader di partito o ministro…) per presunto anti-razzismo violenta non solo le indicazioni dei virologi ma anche il più elementare buon senso e boicotta precauzioni (necessarie per quanto non sufficienti) come l’isolamento e la quarantena per chi abbia frequentato aree dove l’epidemia è diffusa.
Ultima notazione: nell’attività di aggiornamento professionale obbligatorio, gli Ordini dei Giornalisti farebbero bene, in collaborazione con gli Ordini dei Medici, a realizzare una serie di eventi formativi su comunicare la salute, comunicare la malattia, comunicare le epidemie, comunicare i farmaci (qui magari in collaborazione anche con gli Ordini dei Farmacisti).
E soprattutto, i giornalisti devono riprendere in mano le leve di comando del giornalismo e dei giornali. I giornalisti, non i “padroni” e “padroncini” e non i loro funzionari editoriali, o anche quegli iscritti al nostro Ordine che funzionari editoriali si sentono. (giornalistitalia.it)
Giuseppe Mazzarino
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