TUNISI (Tunisia) – Fare il giornalista in Libia di questi tempi diventa ogni giorno più difficile, considerato il caos che sta vivendo il Paese, e trasforma l’esercizio di questa professione in una sofferenza quotidiana. Se ne è parlato alla conferenza dal titolo “Proteggere i giornalisti durante i conflitti: il caso libico” svoltasi a Tunisi ed organizzata dal Capjc Centre, (Centre Africaine de perfectionnement des journalistes et communicateurs) che ha visto la testimonianza di alcuni professionisti del settore che hanno descritto le condizioni di lavoro dei propri colleghi libici.
Alcuni tra coloro che risiedono in zone della Libia governate da bande islamiche, sono costretti a vivere nascosti, poiché la loro apparizione in pubblico potrebbe valergli la morte, altri preferiscono scegliere l’esilio volontario, altri ancora decidono di rimanere ma più nessuno sembra ormai essere padrone del proprio destino. Quale che sia il gruppo che esercita il potere ove essi svolgono la loro professione, nella gran parte dei casi il loro operato si limita a quello di far da portavoce a qualcun altro. E poco importa se il messaggio da propagandare è quello dell’apologia della violenza, dell’odio e la negazione dell’altro. Rare eccezioni a questa regola sono alcuni media indipendenti che hanno scelto di assumersi il rischio di riportare i fatti con una certa obiettività ma che ovviamente sono costretti a vivere nel terrore di rappresaglie nei loro confronti e dei componenti delle loro famiglie.
Il giornalista libico Jamel Adel ha riferito di aver viaggiato per lavoro in molti paesi difficili, ma di aver trovato la situazione particolarmente complicata proprio nel suo paese e ha raccontato del caso della direttrice della televisione Al-Aan, costretta a lavorare per le milizie islamiche dopo che il canale è stato posto sotto controllo da queste ultime. Questa donna ha pagato sulla propria persona il prezzo della copertura equilibrata dei fatti. Una violenta campagna denigratoria su internet e soprattutto le minacce di morte nei suoi confronti l’hanno costretta a prendere la via dell’esilio.
Il direttore del quotidiano algerino Al Watan, Amor Belhuocett, ha riferito delle eliminazioni fisiche dei giornalisti durante il decennio nero algerino del fondamentalismo islamico. Ha voluto ricordare, soprattutto, come all’epoca i giornalisti fossero l’obiettivo dei gruppi radicali islamici e al tempo stesso delle autorità che non esitavano a gettarli in prigione poiché detentori di verità scomode. Durante il dibattito si è inoltre discusso della proposta di creazione di una Carta per la protezione dei giornalisti libici da proporre alle autorità e alla società civile libica in maniera che i principi della professione possano essere applicati sul terreno.
La conferenza è stata anche l’occasione per presentare l’associazione Asouat Al Hidhab (voci delle colline). Tra i promotori dell’incontro, che ha messo a disposizione dei media un importante database. Formata da un gruppo di giornalisti provenienti da Mali, Mauritania, Algeria, Libia e Marocco, essa si candida a diventare la voce di chi non ha più voce e si contraddistingue per il modo di trattare gli argomenti che abitualmente passano sotto silenzio dai media tradizionali. Tra le ambizioni di Asouat Al Hidbab anche la contribuzione attiva alla ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti armati. (AnsaMed)
O vivono nascosti per non rischiare la vita. Si ipotizza una Carta per la loro protezione