CATANZARO – «Mi stringo nelle spalle, e vado in procura. Racconto i fatti. Dopo essermi convinta che c’è un solo modo per garantire un’indagine, tenerla riservata. Chi ha inviato i verbali, promettendo di inviarne ancora, non ha lavorato per la giustizia, ma contro la giustizia». Si conclude così l’articolo, intitolato «Quelle carte sull’uscio di casa. Ecco perché ho denunciato», pubblicato oggi da Liana Milella, cronista giudiziaria di Repubblica, nel quale racconta il momento e il modo in cui ha ricevuto a casa sua, da una fonte anonima, i verbali dell’avvocato siciliano Piero Amara, sentito nei mesi scorsi dalla procura di Milano. Verbali che, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, sarebbero transitati dalla procura milanese al Csm e da lì, in qualche modo, ai quotidiani.
«In quarant’anni di lavoro – scrive Milella – non mi era mai capitato che una fonte, per di più anonima, mi “regalasse” dei verbali. Chiedendomi prima al telefono se volevo riceverli, per scoprire poi le sorprese che contenevano. Per questo, quel 24 febbraio intorno alle 11, quando sul mio cellulare compare uno “sconosciuto”, resto sorpresa. E una voce di donna. Ne intuisco un vago accento nordico. Non esito. Sì, rispondo dando il mio indirizzo di casa, “mi mandi pure il materiale, lo leggerò con interesse, e valuterò”. La fonte è prodiga, mi garantisce che il primo sarà solo un invio parziale. Perché di “carte da far tremare il Paese” ce ne potranno essere altre».
Ecco, prosegue Milella, «comincia così la storia dell’invio, per posta ordinaria, dei verbali di Piero Amara. E due giorni dopo la busta compare nella mia cassetta delle lettere. Sono proprio dei verbali. Nei quali, con la procura di Milano nel dicembre 2019, parla l’avvocato Piero Amara. Sono tre. Il primo del 6 dicembre. Gli altri due dello stesso giorno, la mattina e il pomeriggio del 14. Li sfoglio. E noto subito un’anomalia che mi mette in allarme. Perché questi verbali non sono firmati in calce, come dovrebbero essere, dai pm che li hanno raccolti. Cominciano i dubbi. I perché insistenti sulla fonte che li ha inviati. Scorro il contenuto. Mi saltano subito all’occhio nomi importanti, a partire da quello di Giuseppe Conte. Ma ce ne sono altri di spicco. Molti li conosco».
Si parla, aggiunge Milella, «di una loggia, e sono tante le persone coinvolte. Leggo e rileggo. E mi chiedo: perché questa fonte ha scelto proprio me come destinataria? Mi occupo di giustizia è vero, di Csm anche, ma non seguo da molto tempo inchieste giudiziarie sul campo. C’è una lettera che accompagna i verbali. Poco meno di una pagina. Il contenuto è simile a quello della telefonata. Mi si dice che leggendo “scoprirò un nuovo mondo che ci tengono a mantenere segreto, anche ad ALTI e ALTISSIMI LIVELLI”. Il maiuscolo non è casuale. “CANE NON MORDE CANE (come dice Palamara) CHE FORSE, E ANZI TOLGO FORSE, HA RAGIONE”.
Chi invia le carte lamenta che siano state tenute “in un cassetto chiuso a chiave già da più di un anno”. Si cita il procuratore di Milano Greco. E anche il Pg della Cassazione Salvi che sarebbe “a conoscenza”. Segue la promessa di altri verbali e una sorta di sfida: “Immagino che non potrà pubblicare questa roba scottante”…».
Subito dopo Milella scrive: «M’interrogo: ma questa “roba” è vera? Lo è in tutto? Lo è in parte? Non lo è affatto? E poi. Rendere pubbliche queste pagine – se davvero dovessero rivelare delle verità – equivarrebbe a distruggere un’indagine. Rifletto sul che fare. Far finta di non aver ricevuto nulla? Indagare? Chiamare le persone citate per sapere se sì, davvero fanno parte di una loggia massonica? Raccoglierei solo smentite. Ma – se l’indagine fosse già in corso, e questo non posso saperlo – contribuirei a distruggerla.
Faccio l’unica cosa che, in quei minuti, sento di dover fare. Una denuncia. Per aver ricevuto atti apparentemente giudiziari. In una forma che mi appare anomala e che potrebbe nascondere un depistaggio. E un passo che mi costa fatica e tormento interiore perché so bene che le fonti sono sacre. Ma lo sono se appartengono alla categoria delle fonti trasparenti».
Poi il finale: «Mi stringo nelle spalle, e vado in procura. Racconto i fatti. Dopo essermi convinta che c’è un solo modo per garantire un’indagine, tenerla riservata. Chi ha inviato verbali, promettendo di inviarne ancora, non ha lavorato per la giustizia, ma contro la giustizia». (adnkronos)