ROMA – Non fu diffamatorio l’articolo, intitolato “Ritratto di famiglia in un inferno”, pubblicato sul settimanale “Panorama”, nel quale si riportavano fatti inerenti la vita privata della famiglia di Adriano Celentano e Claudia Mori, una delle coppie più celebri della musica italiana.
La quinta sezione penale della Cassazione ha, infatti, chiuso definitivamente il processo per diffamazione a mezzo stampa avviato a carico dell’autore dell’articolo, confermando l’assoluzione del giornalista “perché il fatto non costituisce reato” già pronunciata dalla Corte d’appello di Milano, che aveva ribaltato il verdetto emesso in primo grado nel quale il Tribunale aveva condannato giornalista e direttore ad un risarcimento danni di 40mila euro.
Secondo l’accusa, l’articolo in questione era “lesivo della reputazione” della coppia Celentano-Mori, perché “commentava, con taglio denigratorio, fatti della vita privata dei due, idonei a dare di loro una rappresentazione distorta, con riguardo ai rapporti di famiglia e alla coerenza dei comportamenti privati di Celentano rispetto alle esternazioni pubbliche”.
Adriano Celentano e Claudia Mori, in qualità di parti civili e ai soli fini civilistici, avevano presentato un ricorso in Cassazione, che è stato rigettato dagli “alti” giudici.
“Non può affermarsi che la diffamazione sia stata consumata, nella specie, attraverso la selezione di fatti accaduti nel tempo, scelti opportunamente dall’articolista per dare una rappresentazione distorta della famiglia Celentano-Moroni – si legge nella sentenza depositata ieri – essendo l’articolista libero di selezionare i fatti reputati rilevanti per l’illustrazione della personalità dei soggetti criticati, nonché della realtà di coppia e familiare”.
La Suprema Corte, poi, ricorda che anche la “manipolazione” di un dato può essere “rilevante sotto il profilo della diffamazione”, ma “perché ciò accada occorre che il risultato complessivo di questa operazione consista nello stravolgimento del «fatto»”. In questo caso, invece, nel ricorso “sono lamentate valutazioni negative dei fatti – osservano i giudici di piazza Cavour – rese possibili dalla mancata considerazione di altri dati che, a giudizio dei ricorrenti, andavano contrapposti ai primi per la formulazione di un giudizio obbiettivo”.
Quanto al titolo “inutilmente offensivo” dell’articolo pubblicato, la Cassazione ha ritenuto “corretto” il criterio a cui si è attenuta la Corte d’appello milanese, secondo cui “del titolo non può essere ritenuto responsabile l’articolista, ove, come nella specie, questi si sia limitato a trasmettere l’articolo al giornale e sia stata la redazione a «titolare il pezzo»”. (Agi)