BOLOGNA – Il contratto a tempo indeterminato non si tocca, neppure quando i dipendenti passano ad una nuova società in virtù di un affitto d’azienda: è questo il senso della sentenza con cui la Corte d’Appello di Bologna ha accolto in pieno il ricorso di un giornalista professionista della “Voce di Romagna” vittima delle manovre illegittime dell’editore.
Il collega era dipendente a tempo indeterminato di Editrice La Voce, quando nell’aprile 2015 la società di Gianni Celli ormai avviata verso il fallimento passò la gestione del quotidiano alla s.r.l. Edizioni delle Romagne, nominalmente amministrata dal figlio Nicola Celli. Il giornalista fu fatto transitare alle dipendenze della nuova compagine, non a tempo indeterminato come era suo diritto bensì con un contratto di soli sei mesi, al termine dei quali non fu più riassunto. Un’ingiustizia contro la quale il coraggioso collega fece ricorso ed ora ha vinto la causa.
Per comprendere la gravità dei fatti ricordiamo il contesto. L’affitto d’azienda del giornale riminese fu reso possibile da un accordo-capestro, mai riconosciuto anzi apertamente contrastato dal sindacato e dai giornalisti che lottavano insieme all’Aser, perché tagliava sensibilmente i diritti e le tutele di chi sarebbe passato alla nuova società editrice dei Celli. Infatti, all’indomani della firma dell’accordo fu messo in pratica ciò che sembrava inaudito: professionisti “articolo 1” contrattualizzati ad una scadenza di 6 (sei) mesi; scatti di anzianità cancellati; capiservizio retrocessi a redattori ordinari; crediti da lavoro (le famose 15 mensilità non pagate da Celli senior) rimasti in sospeso; retribuzioni di aprile da liquidarsi nel successivo mese di luglio; e così via. In quella fase oscura, un episodio buio nella storia dell’editoria in regione, furono fatti saltare i posti di lavoro di una decina di professionisti storici della redazione, fra cui un componente del Comitato di redazione: loro unica colpa, essersi opposti alla macelleria sociale della famiglia Celli e dei loro sodali, alcuni dei quali annidati nella redazione stessa.
Ma neppure i tagli, l’umiliante passaggio del personale e le deroghe di ogni tipo ai doveri datoriali migliorarono la situazione. Al contrario, la nuova società proseguì l’andazzo di quella vecchia fino alla chiusura delle pubblicazioni per fallimento nel marzo 2017: nella cosiddetta “Voce 2” gli stipendi non pagati ed ora reclamati nel passivo da giornalisti, pubblicisti, grafici e fotografi superano i 400mila euro, mentre ammontano a circa mezzo milione i danni per i nostri istituti di categoria, per la previdenza e l’erario.
Ora la Corte d’Appello, “definitivamente decidendo” – citiamo dal dispositivo –, “dichiara la nullità della clausola di limitazione temporale apposta al contratto di lavoro […] con conseguente inefficacia del recesso dal rapporto di lavoro”. La società di Celli condannata a pagare le spese di giudizio – 3.900 euro – e gli altri rimborsi di rito. Per impossibilità sopravvenuta (data la chiusura delle pubblicazioni per fallimento) non può esserci reintegrazione nel posto di lavoro.
Questi i brani di nostro interesse dalle motivazioni della sentenza, recentemente depositate:
«Le deroghe all’art. 2112 c.c. consentite dal comma richiamato in sede di accordo sindacale (L. 428/1990, art. 47, co. 4-bis, ndr) sono esclusivamente quelle contemplate nell’accordo medesimo, nei termini e con le limitazioni ivi previste, e non tout court qualsiasi deroga»;
«Poiché, nel caso in esame, l’accordo sottoscritto non conteneva alcuna disposizione che consentisse di trasformare il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato del ricorrente in uno a tempo determinato della durata di sei mesi, il mutamento apportato in sede di stipula del contratto individuale è illegittimo».
Il processo conclusosi positivamente per il collega della “Voce” richiama l’attenzione sulla vicenda più generale del quotidiano, oggi non più in edicola e la cui testata è all’asta (dopo vari esperimenti andati a vuoto la gara non è ancora stata aggiudicata). L’attività di Gianni Celli ha lasciato un panorama di macerie: pur avendo beneficiato di una ventina di milioni di euro di contributo pubblico dell’editoria dal 2002 in avanti, sono fallite a catena varie società editoriali ed immobiliari a lui riconducibili, una decina in Italia ed una a San Marino, per un passivo provvisorio di 32 milioni di euro; una condanna in primo grado a un anno e tre mesi di reclusione per omesso versamento di ritenute dovute o certificate; due condanne per comportamento antisindacale e licenziamento discriminatorio-ritorsivo; alcuni mesi passati ai domiciliari, nell’ambito dell’“Operazione UnderTone” del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza che portò fra l’altro al sequestro di beni immobili e conti correnti per l’equivalente di 9 milioni di euro.
Allargando l’orizzonte, non si può non ricordare la condanna deontologica a due mesi di sospensione dalla professione comminata all’ultimo direttore responsabile del giornale, Raimondo Baldoni (“non ha osservato i doveri dello spirito di collaborazione fissati dall’art. 2 della legge professionale e dalla Carta dei doveri, privilegiando invece la tutela degli interessi e della figura dell’editore”). E gli inquirenti sono ancora al lavoro. (giornalistitalia.it)
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