RIMINI – Un giornale, una intera redazione, un progetto editoriale ventennale, completamente distrutti. Nove società dichiarate fallite dal Tribunale di Rimini nel giro di 29 mesi. Altre società conferite all’interno di un concordato di gruppo di cui è stata chiesta la revoca. Un passivo accumulato di circa 32 milioni di euro (dato provvisorio). Beni immobili e conti correnti sequestrati dalle Fiamme Gialle per oltre 9 milioni di euro. Arresti domiciliari ed altre misure cautelari preventive. Una condanna in primo grado a un anno e 3 mesi di reclusione, per omesso versamento di ritenute dovute o certificate. Due condanne per comportamento antisindacale e licenziamento discriminatorio-ritorsivo. Una complessa indagine penale tuttora in corso, con più indagati.
Questo il panorama di rovine – ma il bilancio è purtroppo ancora non completo – lasciato dietro di sé dall’editore-immobiliarista verucchiese Gianni Celli, fino a pochi mesi fa al timone del quotidiano “La Voce di Romagna” ed amministratore di una miriade di società a responsabilità limitata, cooperative e consorzi.
Oggi in Tribunale a Rimini si celebra un’udienza per venire a capo dello strascico debitorio di chi gestiva il giornale. L’ultimo fallimento in ordine di tempo, quello della srl Edizioni delle Romagne, riguarda infatti il crepuscolo di questa attività editoriale, gli ultimi 23 mesi sfociati nella chiusura delle pubblicazioni.
È doveroso informare l’opinione pubblica sui fatti accaduti, descrivendone i passaggi salienti, in modo che i lettori possano farsene un giudizio. Non è una piccola storia privata, polvere da nascondere sotto il tappeto: un giornale è un’impresa che ha rilevanza pubblica, dato il servizio che offre, tanto più quando attinge alle finanze statali, come in questo caso (oltre 20 milioni di euro da quando, nel 2002, aveva maturato il diritto alla ripartizione dei contributi del Dipartimento Editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri).
Negli ultimi 23 mesi “La Voce di Romagna” è andata in edicola sotto le insegne di Edizioni delle Romagne, una società formalmente intestata a due giovani figli di Celli, alla quale egli stesso compartecipava con una coop edilizia da lui amministrata. Vi entrarono altri piccoli soci versando decine di migliaia di euro come pagamento in sovrapprezzo di quote azionarie di minoranza: nonostante questo sforzo, il capitale sociale figurava sotto i 15mila euro e dopo poco più di un anno era già stato dichiarato azzerato.
Ma veniamo al punto cruciale. La gestione del giornale era stata consegnata in affitto a Edizioni delle Romagne da parte della società che l’aveva gestito dalla nascita, Editrice La Voce amministrata da Gianni Celli.
Celli voleva far transitare nella nuova società solo una parte dei giornalisti, 15, con il pretesto che l’azienda si sarebbe risanata solo grazie ad un sacrificio notevole di posti di lavoro, ma per farlo occorreva un accordo in deroga alla legge. Guarda caso, il numero dei giornalisti che avrebbero salvato il loro posto di lavoro coincideva con il numero di voti sufficiente a far passare le richieste aziendali.
E così accadde – guarda ancora il caso – che i giornalisti messi fuori dalla redazione furono individuati proprio fra quelli più attivi nelle proteste sindacali e nelle rivendicazioni per l’accumulo di ben 15 mensilità non pagate.
Ecco come il passaggio del giornale da una società all’altra viene descritto dal Tribunale del Riesame: «in tal modo è stato assicurato il mantenimento in capo al Celli e alla sua famiglia dell’azienda». Per di più, i giudici fanno propria l’ordinanza del Gip evidenziando «condotte recidivanti di bancarotta in relazione alla vendita del ramo d’azienda della società Editrice La Voce alla società Edizioni delle Romagne srl, le cui quote sono detenute dai due figli dell’indagato, avvenuta in data 19/2/2015 per un canone di affitto irrisorio».
Oggi cominciano a venire al pettine i nodi del passivo di Edizioni delle Romagne. Ma, come detto, questa è solo una delle 9 società la cui storia e il cui destino appaiono intrecciati a quello della “Voce”.
Gli inquirenti hanno di che lavorare. Fra i tanti misteri che meritano approfondimenti, nelle opportune sedi, ne abbiamo scelti due da sottoporre alla curiosità dei lettori.
Una società di proprietà della coop di famiglia, che aveva costruito e venduto gli spazi di un grande edificio in viale Settembrini, disponeva di un immobile invenduto di 22,5 vani. Poco prima di chiedere il concordato della “Voce”, quando i giornalisti erano creditori di una dozzina di mensilità non pagate, Celli cedette l’immobile a due srl, una controllata da un suo socio nella coop di famiglia, l’altra amministrata dal giornalista che dirigeva il quotidiano, Baldoni. Come si spiega?
L’altro giallo riguarda gli ultimi mesi del giornale. Edizioni delle Romagne, fallita, presenta un passivo provvisorio di 1,3 milioni di euro. I creditori principali sono i dipendenti (hanno insinuato 402mila euro per stipendi non pagati), gli istituti di previdenza e assistenza sanitaria ed Equitalia per tasse non versate (circa 450mila euro). Eppure, nel 2016 la società ha dichiarato ad Agcom una tiratura complessiva di 2.246.775 di copie, cioè 6.223 copie medie giornaliere stampate; per i primi 17 mesi di attività ha iscritto a bilancio un totale di ricavi di 1,8 milioni di euro. Qualcosa non torna.
I creditori di Editrice La Voce e delle altre società riconducibili a Celli, attendono giustizia. E non molleranno.
Paolo Facciotto
già componente del Comitato di Redazione della “Voce di Romagna” e fiduciario sindacale
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