ROMA – Noi e solo noi, i giornalisti, eravamo i “gatekeeper”: i guardiani dei cancelli dell’informazione. Nell’era dei mass media era competenza esclusiva dei redattori decidere cosa pubblicare: quali fatti erano anche notizie, cosa era vero e cosa falso. Eravamo gli unici “filtri” tra la realtà e la sua rappresentazione: i nostri cancelli lasciavano passare solo ciò che potevamo verificare e che meritava di essere pubblicato.
Intendiamoci: notizie false, inventate, al servizio della propaganda, e vere bufale ci sono sempre state; qualche volta, anche spesso a seconda dei contesti storici, finivano per “scavalcare” i cancelli e venivano pubblicate. Ma solitamente erano confinate dentro recinti ben delimitati e riconoscibili: i tabloid, giornali di gossip, testate politicamente e acriticamente schierate.
Nell’era dei mass media, giornalisti e editori erano i padroni delle notizie che avevano una grande influenza nella formazione dell’opinione pubblica e quindi sugli equilibri democratici. Il nostro compito era, e resta, fornire informazioni verificate ai lettori perché possano prendere decisioni consapevoli. In tutti i campi: dalla finanza alla politica; dalla gestione della casa a quella del tempo libero.
Oggi, noi non siamo più “i padroni delle notizie” e quel mondo lì non esiste più. La rete e i social network hanno trasformato l’ecosistema dei media e ci hanno traghettati nell’era dell’abbondanza, regalandoci tanta informazione come non era mai accaduto in passato.
Oggi chiunque può creare e diffondere informazioni; tutti possono ascoltare o parlare aggregando più audience contemporaneamente. Un grande passo in avanti nella storia dell’umanità, e nella democratizzazione della società. Ma è anche vero che in questo grande, immenso, incontrollato bazar delle news è diventato via via più difficile distinguere cosa è vero da cosa invece non lo è. Bufale, veleni, notizie false create a scopi ben precisi si diffondono in rete, rimbalzano da un profilo social all’altro, diventato virali, in certi casi raggiungono milioni di persone e finiscono per avere un peso nella formazione dell’opinione pubblica.
Lo dimostrano due importanti avvenimenti di questo 2016: la Brexit e l’elezione di Donald Trump a 45° presidente degli Stati Uniti. In entrambi i casi abbiamo assistito a una propaganda largamente impostata su informazioni non verificate, quando non deliberatamente false, che hanno probabilmente pesato sull’esito finale del voto. La crisi delle élite mondiali e l’avanzare dei populismi ci hanno condotti verso la stagione politica del “chi la spara più grossa vince”.
Analisti e studiosi dicono che siamo entrati nell’era della “post verità”: non è l’attinenza tra fatto e racconto a guidare il discorso pubblico, e quindi le decisioni che prendiamo, quanto ciò che ci fa comodo pensare sia la verità. L’emozione prende il sopravvento sull’analisi, la pancia prevale sulla testa. Il fenomeno è talmente diffuso da aver convinto l’Oxford Dictionary a decretare “Post Truth” parola dell’anno.
Cosa possiamo fare? E, soprattutto, cosa dobbiamo fare? Dan Gillmor e Jeff Jarvis, due studiosi di giornalismo e trasformazioni sociali e tecnologiche, hanno già elencato alcune sostanziali contromisure che piattaforme come Facebook, Twitter e Google potrebbero da subito adottare per premiare nei loro ranking il discorso pubblico basato sulla verità rispetto a veleni e menzogne. Ma sono altresì entrambi convinti che non possiamo demandare a piattaforme già estremamente potenti e pervasive il ruolo di “arbitri” cui delegare il giudizio su ciò che è vero e ciò che è falso.
Inoltre gli algoritmi sui quali si basano queste piattaforme hanno già dimostrato di non funzionare sul piano della rilevanza della qualità del discorso giornalistico, non almeno per come sono stati impostati fino ad oggi. Tanto meno possiamo pensare di risolvere il problema chiedendo ai soli lettori di prendersi il tempo per riflettere sulla attendibilità di ciò che leggono.
Non possiamo pretendere che le persone, che fanno altri lavori, dedichino parte del loro tempo alla verifica di quello che è attendibile e ciò che è invece menzogna. Questo è da sempre il compito proprio del giornalismo, che nell’Ottocento è diventata una professione retribuita (prima non lo era) proprio per assolvere questa funzione.
Dobbiamo dunque prendere atto che nella società dei personal media il nostro lavoro è cambiato e che la verità, il valore che essa esprime nel dibattito democratico, è oggi più centrale che mai. Combattere le notizie false, ovunque esse dispieghino il loro ingannevole potenziale, creare una migliore esperienza online per i lettori, contribuire a una discussione civile e informata che è la base di ogni decisione consapevole è il nostro compito. La verità conta. Non è solo la parola d’ordine che ci siamo dati all’Agi: è la base fondante di ogni giornalismo che non voglia rinunciare alla propria missione e rilevanza. (agi)
Marco Pratellesi