ROMA – Mio nonno Fritz, morto nell’inferno di Auschwitz, rivive davanti al portone di via Monte Zebio 40, a Roma, allora abitato dalla sua famiglia romana che lo aveva accolto nel settembre 1941, profugo ebreo da Berlino senza più tetto, senza più identità civile e professionale.
Perché gli uomini non dimentichino i tempi delle atrocità, parla di lui, del suo olocausto, una targa d’ottone delle dimensioni di un sampietrino, la “pietra di inciampo”. La memoria è cementata nella pavimentazione del marciapiede.
Ebreo per etnia, ma non per pratica religiosa. Laico, libero pensatore, poeta, filosofo, giurista, notaio di brevetti con uno studio conosciuto in tutto il mondo, personaggio di spicco dell’intelligenza berlinese, si sentiva tedesco fino alle midolla. Patriota, aveva combattuto nella prima guerra mondiale meritandosi una medaglia al valore.
In quei giorni di tirannia nazista, di odio e persecuzioni contro gli ebrei, e quindi di diaspora per milioni di innocenti, a lui e alla sua famiglia il regime rese la vita impossibile: progressivamente e drammaticamente si era visto trasformare prima in cittadino di seconda classe, poi in un paria, infine in un transfuga.
Si piegò a malincuore alla malasorte, rinunciando a 65 anni alla sua brillante professione per fuggire alle razzie prima che fosse troppo tardi.
Prima si rifugiò presso la famiglia romana e poi fu accolto, perché giocoforza convertito, nell’extraterritoriale Pontificio Istituto Orientale, allora un corpo unico con il Collegio Lombardo e con l’Istituto Russicum, accanto alla basilica di Santa Maria Maggiore. Qui fu catturato il 21 dicembre 1943.
A Regina Coeli, dove fu rinchiuso, cominciò il calvario dell’ebreo convertito Fritz Warschauer. Dopo tre mesi di carcere duro, il 25 febbraio 1944, nonno venne tradotto nel campo di concentramento italiano di Fossoli assieme ad altri 207 compagni di sventura. In quei tempi, era gestito dalle SS come campo di transito, anticamera dei lager. Ne parla Primo Levi nel suo libro “Se questo è un uomo”.
Nonostante le asprezze della detenzione, nonno potette tenere un minimo di corrispondenza con la famiglia. A Fossoli rimase fino al 4 aprile. In un carro ferroviario bestiame con altri 564 deportati, dei quali 174 romani, venne deportato Auschwitz dopo sei giorni di viaggio in condizioni disumane e fra indicibili sofferenze. Ormai anziano, nel lager non durò a lungo.
Insomma lo sfortunato Fritz Warschauer dovette fuggire da Berlino perché ebreo, si dovette nascondere a Roma perché ebreo, trovò un rifugio perché convertito cattolico, ma fu preso come ebreo e “politico” e morì ad Auschwitz bollato due volte con il duplice marchio di “politisch schutzhäftling”.
Romano Bartoloni
Segretario Sindacato Cronisti Romani