BEIRUT (Libano) – L’erede al trono saudita, Mohammed Bin Salman, ha fretta di chiudere il caso di Jamal Khashoggi – il giornalista del Washington Post ucciso lo scorso 2 ottobre 2018 all’interno del consolato del Regno a Istanbul – possibilmente prima dell’inizio della campagna elettorale negli Stati Uniti per le elezioni presidenziali di novembre 2020, in cui Donald Trump – considerato un sostenitore del principe – punta alla rielezione.
È quello che emergerebbe da un report, basato su fonti di intelligence, del think thank emiratino Emirates Policy Center (Epc), riservato alle autorità di Abu Dhabi, ma visionato in esclusiva da Middle East Eye.
“Riad vuole chiudere il caso e giungere a sentenza ai danni dei responsabili dell’omicidio prima dell’inizio della campagna elettorale, onde evitare che il tema entri nel dibattito generale delle presidenziali americane”, recita il documento, datato 24 maggio 2019.
Sia la Cia che i servizi turchi ritengono che l’ordine di assassinare Jamal Khashoggi sia giunto direttamente dall’erede al trono saudita ma il mese scorso lo stesso presidente americano Donald Trump ha respinto la richiesta delle Nazioni Unite affinché l’Fbi apra un’inchiesta sulla morte del giornalista, adducendo il rischio di compromettere il buon esito della vendita di armi a Riad e pregiudicare i rapporti commerciali tra Arabia Saudita e Stati Uniti.
Quasi due mesi fa Agnes Callamard, la responsabile dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali, ha concluso un report di circa 100 pagine sul caso Khashoggi, nel quale rivela che i suoi esecutori lo avrebbero definito un “agnello sacrificale”, suggerendo all’Fbi a margine del documento di “aprire una inchiesta negli Stati Uniti”.
Il report dell’Emirates Policy Center spiega che la strategia di Mbs si baserebbe sul tentativo di chiudere la questione “alla saudita”, cioè servendosi delle autorità religiose del Regno – la cui dottrina di riferimento è quella wahhabita, una setta letteralista dell’Islam sunnita – per convincere la famiglia di Khashoggi ad accettare la “Diya”, il “prezzo del sangue”, ossia una cifra a titolo di risarcimento che il diritto islamico prevede nei casi di omicidio, e che è alternativa al “qisas”, ossia il diritto alla vendetta (“occhio per occhio”) che la famiglia della vittima detiene nei confronti dell’autore o degli autori dell’omicidio (alla quale le autorità saudite vogliono che rinuncino, ndr).
“È ipotizzabile che le autorità religiose saudite forniranno un punto di vista religioso-legale, proponendo due alternative ai familiari di Khashoggi: rinunciare a ogni compensazione e al qisas (vendetta), accettare la diya oppure accordarsi per un diverso livello di compensazione in seguito ad accordo tra le parti, come è d’uso nella sharia che regola il sistema giudiziario saudita”, continua il documento emiratino.
Lo scorso aprile il Washington Post ha rivelato che i figli di Khashoggi avrebbero ricevuto decine di migliaia di dollari e case dal valore di milioni, ma recentemente Salah Khashoggi, primogenito del giornalista assassinato, con un comunicato stampa ha negato che si trattasse di una ammissione di colpa o di un tentativo di compensazione da parte delle autorità saudite, bensì solo un “generoso gesto di assistenza da parte del governo saudita”. Secondo il report dell’Epc, Salah Khashoggi sarebbe stato “indotto a esprimersi in questo modo”.
Allo stato attuale undici cittadini sauditi, tenuti in condizione di anonimato, sono sotto processo a Riad per l’omicidio Khashoggi – cinque di essi rischiano la pena di morte – ma Saud al Qahtani, consigliere di Mbs nonché sospettato dalle intelligence americana e turca di essere l’ideatore dell’assassinio, secondo il Washington Post continua ad tenere contatti regolari col principe saudita.
Secondo Callamard, è assai difficile che venga fatta giustizia: il processo si terrà a porte chiuse e l’identità degli indagati rimane ignota. È, inoltre, contraria alla Convenzione sui diritti umani la compensazione finanziaria ai famigliari di una vittima di omicidio. Nessuno degli undici indagati da Riad sembra essere nella lista dei possibili responsabili dell’omicidio secondo il Dipartimento di Stato americano, e nessuno di loro figura nell’elenco di 16 cittadini sauditi che lo scorso aprile sono stati oggetto di un “travel ban” da parte di Washington, poiché ritenuti collegati all’omicidio. (agi)