ROMA – Chi non vorrebbe che un cittadino innocente non finisca sulla bocca di tutti per via delle intercettazioni delle sue telefonate con un grande corruttore? Tutti. A partire dai giornalisti che potrebbero così lavorare in pace e non essere seppelliti da accuse false e strumentali che hanno il solo scopo di nascondere ai cittadini ladri e ruberie.
Dal 2005 sul tema della pubblicazione delle intercettazioni è in atto un grande scontro, che ha visto via via in prima linea i Guardasigilli Castelli (Berlusconi), Mastella (Prodi), Alfano (Berlusconi). Tutti loro, come tutti i politici del resto, hanno sempre detto di voler tutelare libertà di stampa e diritto di cronaca e nel frattempo promuovevano normative più o meno pesantemente censorie.
Adesso al cimento si presenta il governo Renzi, secondo il quale “non ci vuole il bavaglio, ma non bisogna ledere le sfere personali nella pubblicabilità”. Il presidente del Consiglio annuncia che avvierà una consultazione con i direttori dei giornali.
Le consultazioni sono sempre positive, ma in una materia regolata dalla legge penale, inutili, a meno che non puntino ad ottenere una autocensura. La normativa stabilisce che il contenuto delle intercettazioni disposte dalla magistratura, quando è allegato nei provvedimenti di richiesta di rinvio a giudizio, e quindi è stato portato a conoscenza dell’indagato, diventa pubblico. In quell’istante scatta per il cronista l’obbligo di renderle note per informare, come sancisce la sua etica professionale, in modo corretto, compiuto e tempestivo i cittadini.
La grandissima maggioranza delle intercettazioni pubblicate negli scorsi anni, è bene ricordarlo, lo sono state nel rispetto della legge, trattandosi di atti depositati, quasi sempre ai sensi dell’art 415bis cpp (atto di chiusura d’indagine preliminare), e quindi “doppiamente” dissecretati, perché conosciuti dalle parti coinvolte e perche! acute; conclusivi dell’inchiesta.
La “chiave” per evitare che il terzo estraneo all’indagine sia coinvolto nella pubblicazione delle intercettazioni non è nelle mani dei giornalisti, ma dei magistrati. I quali, come prevede già la legge, dovrebbero fare da “filtro” tra le trascrizioni delle intercettazioni e i testi resi pubblici, intervenendo sulla produzione degli atti prima del loro deposito.
Una funzione, quella del “filtro”, intesa in modo corretto e rispettoso dell’art. 21 della Costituzione, sulla quale Unione Cronisti, Fnsi e Ordine dei Giornalisti si sono detti d’accordo da molto tempo, proprio per evitare che nelle trascrizioni delle intercettazioni rimangano nomi e frasi di terzi estranei all’indagine.
La “via maestra” per tutelare il buon nome degli innocenti è quindi, quella di modificare la normativa imponendo al magistrato di “ripulire” le trascrizioni delle intercettazioni. Ogni altra soluzione rischia di provocare problemi e guasti a questo o quel diritto.
I cronisti hanno il dovere professionale ed etico di rendere noto quanto apprendono, ad altri spetta il dovere di tutelare il segreto di indagine. E’ vero che sul punto la posizione del governo appare ancora fluida. Ma come non sentire suonare un campanello di allarme se al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, viene attribuita la frase: sulle intercettazioni “nessuno vuole mettere bavagli”, o “ridurre lo strumento investigativo”, ma solo “studiare gli strumenti più idonei a evitare la diffusione di notizie che non hanno rilevanza penale, fermo restando il confronto con gli editori e i direttori dei giornali”.
Guido Columba