La crisi è grave. Coinvolgiamo la categoria in una discussione sul futuro

Inpgi: ecco chi rischia di pagare il conto

Fabio Pavesi

Fabio Pavesi

Inpgi

MILANO – L’Inpgi è a un bivio difficile della sua storia, da quando nel ’94 è stato privatizzato. Ora si parla apertamente di una nuova riforma, inevitabile, ma basterà? Le ultime due riforme nel 2007 e nel 2011 si sono rivelate dei pannicelli caldi. Hanno solo tamponato una crisi che è in realtà strutturale da molti anni. Anni in cui si è minimizzata la portata della crisi.
Basti pensare che già nel 2004 l’attuario Gismondi pronosticava che dal 2017 il saldo della gestione corrente sarebbe risultato negativo accentuandosi nel tempo. Ebbene previsione azzeccata ahimè solo con largo anticipo. Il saldo tra entrate (contributi) e uscite (spesa per pensioni Ivs) della gestione corrente (incassare contributi e pagare pensioni) è andato in rosso per la prima volta già nel 2011 per 1,3 milioni. Poco si dirà. Ma è l’escalation a essere drammatica. Il buco costi/ricavi è salito a 7,4 milioni nel 2012, esploso a 51milioni nel 2013 e arrivato a 81 milioni nel 2014. Le pensioni (sono ormai più di 8mila di cui 2.200 di reversibilità) sono costate 444 milioni l’anno scorso. Nel 2010 erano solo 369 milioni. I contributi che nel 2010 erano di 376 milioni sono invece scesi di circa 30 milioni. Una forbice che si allarga ogni anno che passa di 20-30 milioni e che è destinata a crescere. Il bilancio che non ha mai chiuso in perdita (per ora) si è salvato solo grazie a plusvalenze immobiliari che sono state di 200 milioni negli ultimi due anni. Ma sono una tantum. Quando a breve (quest’anno, massimo l’anno prossimo) i conferimenti ai fondi immobiliari finiranno niente più plusvalenze e allora emergerà il buco vero dell’Inpgi.

BUCO MILIONARIO
Sarà mitigato dai proventi della gestione finanziaria nell’ordine dei 40-50 milioni. Difficile pensare a rendimenti maggiori anche perché dal 2009 borse, bond sono tutti saliti e se ci sarà bufera sui mercati finanziari possono anche scendere a 20 milioni o azzerarsi.
Del resto non ci si può difendere solo con la finanza quando il buco è tra contributi e giornalisti in attività che calano (erano più di 18mila prima della crisi ora sono poco meno di 16mila) e pensioni che continuano a crescere a ritmi così intensi. Il rapporto tra attivi e pensionati era di 3 a 1, pochi anni fa ora è sceso a 1,9. Quando le perdite vere si paleseranno si comincerà a intaccare il patrimonio (1,8 miliardi) che già oggi a malapena copre 4 annualità di pensioni sotto la soglia di sicurezza.
Il bilancio attuariale della sostenibilità a 50 anni salutato ai tempi come una grande vittoria già oggi è carta straccia. Una riforma radicale sarà necessaria quindi ahimè.

LA PROPAGANDA
Ma da mesi c’è un coro o meglio più di uno che ha il sapore della propaganda, della retorica demagogica. Pezzi di sindacato e amministratori dell’istituto dicono a gran voce che è colpa degli ammortizzatori sociali, cassa integrazione, solidarietà, disoccupazione. Ridimensioniamoli. Lasciamo senza tutele chi perde il lavoro e chi deve ridimensionare la busta paga.
Coro stonato però: sapete quanto costano gli ammortizzatori pur saliti certo negli anni della crisi? Sono 40 milioni meno del 10% della spesa per le pensioni. Il problema evidentemente non è qui e chi agita questo spettro è in malafede.

I PENSIONATI: NON CI TOCCATE
A muoversi in massa sono anche i pensionati attuali. Basta leggere le mail che ogni giorno arrivano sui nostri computer da Franco Abruzzo. O i pezzi in prima sul Corriere di Piero Ostellino (ex direttore in pensione).
Un coro lamentoso o meglio minaccioso che dice più o meno così:fate come volete voi in attività. Aumentatevi i contributi, abbassatevi le future pensioni, basta che non ci chiedete di partecipare al sacrificio dei nostri diritti acquisiti (in più di un’occasione Abruzzo si è lasciato sfuggire diritti acquistati, lapsus freudiano vero?).

CONTRIBUTI D’ORO?
Il ragionamento è di questo tipo: noi le nostre pensioni ce le siamo sudate versando contributi d’oro. Sui contributi d’oro c’è da discutere assai. L’’inpgi funziona ancora con un sistema retributivo con piccole correzioni. Solo per gli anni dal 2006 si conteggia tutta la vita retributiva e chi aveva più di 15 anni di contributi al ’92 vede la pensione conteggiata con il sistema retributivo che premia gli ultimi 5-10 anni di retribuzione, quelle più alte ovviamente. In modo approssimativo ma assai vicino al vero si può dire che tutti quelli andati in pensione da circa 10 anni hanno pensioni che superano l’80% dell’ultimo stipendio. E bastavano solo 30 anni di contributi anziché i 40 anni dell’Inps perché l’aliquota di rendimento per ogni anno era ed è tuttora all’Inpgi del 2,66% contro il 2% dell’Inps.
Qualche controprova? Eccola. Un pensionato Inpgi su 4 supera gli 80 mila euro di pensione annua, e il 44% delle pensioni superano i 70mila euro. E sono le dirette. Poi ci sono 2.200 pensioni ai superstiti che vengono pagate al 75% quando il massimo all’Inps è il 60%.
Pensioni ricche quindi se paragonate alle altre pensioni o solo a quelle delle Casse privatizzate. Solo i notai hanno pensioni più alte dei giornalisti.

LO SCONTO AGLI EDITORI
Le pensioni alte te le puoi permettere solo se tieni alti i contributi. L’inpgi ha fatto il contrario e mai nessuno né nel sindacato, né nei vertici dell’istituto ha mai evidenziato questa discrasia. Il datore di lavoro (gli editori) hanno avuto trattamenti di favore. L’aliquota versata era infatti fino al 2012 di 5 punti più bassa rispetto ai versamenti che i datori di lavoro fanno all’Inps. Si è provveduto in ritardo clamoroso solo nel 2012 con un aumento di un punto l’anno per gli anni a venire. Quanta distrazione negli anni passati? Sapete quanto vale un punto di contribuzione? Oggi è circa 11 milioni, in passato quanto c’erano più giornalisti attivi era di 14-15 milioni. Dal ’94 fino al 2012 l’Inpgi ha quindi graziato gli editori di una cifra di almeno 40 milioni l’anno. Sono più o meno 600 milioni persi per strada. Mi chiedo dove erano i vecchi vertici dell’istituto, dov’era il sindacato o certi suoi pezzi che oggi ulula contro il peso degli ammortizzatori sociali?

DOMANDE APERTE
Le domande sono tante. Ne formulo solo alcune.
Non si capiva che con contribuzione più basse dell’Inps e pensioni più alte dell’Inps, il divario sarebbe prima o poi esploso?
Eppure l’attuario Gismondi già nel 2004 sosteneva che questo modello sarebbe imploso nel 2017. È imploso addirittura prima.
Perché i pensionati attuali che hanno goduto di trattamenti chiamiamoli fuori mercato si tirano fuori da ogni contributo al risanamento dell’Inpgi? Solo perché la Corte Costituzionale fischierebbe rigore? Ci si trincera dietro la legge, la piaga dei diritti acquisiti e muoia Sansone con tutti i filistei. Se L’Inpgi collassa, chi paga le loro pensioni?
Perché si è permesso per anni di dare pensioni di reversibilità con tassi del 75% quando il sistema pensionistico pubblico si ferma al 60%?
Perché si è ignorato fino al 2012 che gli editori versassero meno di quanto versa qualsiasi altro datore di lavoro? Alzare l’aliquota graduale solo dal 2012 in piena crisi è scelta giusta ma arrivata con almeno 15 anni di ritardo…E prima della crisi gli editori facevano utili non dimentichiamocelo.
Perché il fuoco di fila ora è puntato pare solo esclusivamente sugli ammortizzatori che pesano solo per il 10% delle uscite e sui prepensionamenti? Certo l’effetto collaterale dei pre-pensionamenti è che hai contributi che scendono ulteriormente, hai più pensioni da pagare. Ma è anche vero che il contributo pubblico di 20 milioni l’anno minimizza questi costi. E poi i pre-pensionamenti se non leggo male sono stati dal 2009 poco più di 600. Un terzo delle pensioni di reversibilità e un decimo di tutte le pensioni dirette (vecchiaia e anzianità). È questo il macigno che scassa i conti?
Piuttosto chi ha concesso e perché pre-pensionamenti in passato a gruppi editoriali (penso all’Espresso) che non hanno mai chiuso un bilancio in perdita o a editori che hanno magari testate in crisi ma dispongono di liquidità in altre attività per oltre un miliardo?
Perché l’Inpgi ha un collegio sindacale di ben 7 membri che costa 250mila euro l’anno. Perché il presidente Camporese aveva fino al 2013 uno stipendio base sopra i 240 mila euro? Più del tetto del Presidente della Repubblica.
E che dire dei 25mila euro l’anno lordi pagati ai componenti del Cda anche se sono giornalisti in attività?
Non è certo colpa loro se l’Inpgi vive una profonda crisi, ma è indubbio che qualche morigeratezza in più sarebbe un bel segnale simbolico soprattutto ora.
Per garantire un’Inpgi privato la riforma dovrà essere pesante. Ma non può abbattersi solo sui giornalisti in attività. Sarebbe un altro odioso segno della frattura generazionale che è una delle piaghe del nostro Paese.
L’altra strada è decidere come accaduto all’Inpdai ( l’ex ente privato dei dirigenti d’azienda) di tornare sotto l’ala pubblica. L’Inpgi ha molto in comune con l’ex Inpdai. Bassa contribuzione relativa e alte pensioni. Stesso film. Finito con l’ente che dopo aver perso 600 milioni ha deciso di farsi ripubblicizzare.
Come vedete le questioni sul tappeto sono gravi e interessano davvero tutti noi. Non è plausibile che i destini dell’Inpgi si decidano a tavolino tra un gruppetto di persone e vengano scodellate senza aprire una discussione vera tra tutti i giornalisti italiani.
Soprattutto in un momento come questo. Ne discutiamo? Che dite?

Fabio Pavesi
Giornalista finanziario Il Sole 24 Ore

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