ROMA – Un giornalista che non ha certezze sul proprio futuro, oltre che sul proprio reddito, non è un giornalista libero. Questo vale, ovviamente, per ogni professionista e per ogni lavoratore e per ogni persona. Ma ci sono alcune categorie di lavoratori che, maneggiando strumenti pericolosissimi per il loro impatto sociale, e non solo (esempi molto terra terra: i medici, i piloti d’aereo, i magistrati e gli avvocati, e via seguitando…), se non sono messe in condizione di lavorare con libertà ed almeno relativa serenità creano un danno terribile alla società. I giornalisti sono tra queste.
La messa in sicurezza dell’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (Inpgi) non riguarda, quindi, solo la sicurezza sociale di un certo numero di lavoratori e delle loro famiglie, ma riguarda la qualità dell’informazione e della democrazia.
Perché l’Inpgi è in pericolo? Non certo per “colpa” o demerito dei giornalisti o del personale dell’Istituto (che è di altissimo livello ed è sempre stato di grande disponibilità nei confronti di chiunque avesse bisogno di informazioni o chiarimenti). A meno di non ritenere una “colpa”, come sostenevano gli ineffabili Fornero Elsa in Deaglio, Mastrapasqua e Boeri, quella di voler vivere qualche mese in più oltre l’età della pensione… In Italia gli ultimi dati Istat danno una aspettativa di vita media di 82 anni e mezzo. L’aspettativa di vita dei giornalisti è più bassa. Quella della media mondiale, secondo i dati che ho frettolosamente rintracciato, è di circa 70 anni. Comunque troppi, per certi presidenti dell’Inps e certi ministri contro il Lavoro.
L’Inpgi è in pericolo perché, in presenza di un allungamento della vita media, si sono verificate tre circostanze negative: un fortissimo aumento dei prepensionamenti, effettuato da editori disinvolti anche in presenza di bilanci più che attivi (e non parliamo di quelli mandati a picco da editori incapaci e da manager truffaldini), che fa aumentare la spesa per le pensioni e fa contemporaneamente diminuire i contributi versati all’Inpgi; la forte diminuzione del numero di giornalisti contrattualizzati (grazie anche a leggi indecenti che hanno destrutturato il diritto del lavoro e reso legale lo sfruttamento selvaggio del precariato), con riduzione della platea contributiva; la perdita di valore reale delle retribuzioni dei giornalisti contrattualizzati e la sterilizzazione di tutti i meccanismi di adeguamento salariale.
A carico dell’Inpgi, inoltre, ci sono costi per prestazioni assistenziali, non previdenziali. Come se ne esce? Riportando in carico alla fiscalità generale ed allo Stato l’assistenza, come persino settori politici ostili ai giornalisti ammettono che sia necessario e logico fare.
Ampliando la platea contributiva. Subito. Prima che sia possibile. Cominciando con il passaggio dei “comunicatori” all’Inpgi. Una categoria difficile da definire, d’accordo: E che, stando a talune sue associazioni di riferimento, non particolarmente convinta dell’opportunità di passare nell’Inpgi. Va comunque meglio definita; e poi, se passa all’Inpgi, ci passa per legge.
Basta questo a salvare l’Istituto? No. Aiuta? Sì, certo. Anche per superare un periodo di transizione con “gobba previdenziale” molto oneroso e pericoloso per l’Inpgi. Ma poi bisognerà pagare anche le pensioni dei comunicatori, obietta qualcuno. Certamente, ma, come per i giornalisti assunti ormai negli ultimi decenni, calcolandole col sistema contributivo. Bisognerebbe far entrare questi comunicatori nell’Ordine dei Giornalisti, obietta qualche schizzinoso. Intanto, molti di questi comunicatori esplicano attività molto simili a quelle dei giornalisti (noi ci siamo battuti, mi pare di ricordare, per i giornalisti negli uffici stampa…). Poi, non è affatto “necessario”.
Ma come, entrano in una cassa previdenziale professionale senza entrare a far parte di quella professione? Si può, tranquillamente. C’è un precedente autorevole, l’Inarcassa, che è la cassa previdenziale professionale degli Ingegneri e degli Architetti liberi professionisti. Che sono iscritti a due Ordini differenti, anche se hanno un’unica cassa previdenziale.
Poi bisogna contrastare il lavoro precario (facendo una virtuosa e trasparente azione di lobby su Parlamento e Governo) e quello nero, intensificando i controlli e le sanzioni a carico di editori quasi tutti, chi più (molto di più, in certi casi…), chi meno, disinvolti. Una disinvoltura che non è fatta solo di lavoro nero in senso stretto ma anche di sottocontrattualizzazione o di non regolare pagamento (aliquote previdenziali incluse) del lavoro straordinario, notturno, domenicale e festivo.
Per fare questo, e quant’altro si palesi necessario ed utile, occorre una forte unità della categoria: nostra controparte sono gli editori, e purtroppo talvolta (spesso…) il Governo ed il Parlamento, non le aree culturali e/o sindacali del giornalismo.
Uniti, e con forte capacità di immaginare scenari futuri e soluzioni, ed una ancor più forte capacità di interlocuzione con l’esecutivo ed il legislativo.
Altrimenti, per quanto individualmente possano essere capaci, determinati, esperti i nostri amministratori ed i nostri dirigenti e funzionari, siamo morti. (giornalistitalia.it)
Giuseppe Mazzarino
Sindaco supplente dell’Inpgi