ROMA – La situazione dell’Inpgi, ente di previdenza che assicura da 95 anni la pensione ai giornalisti lavoratori subordinati, é drammatica e rischia assurdamente un clamoroso commissariamento tra 2 mesi. Il tutto, paradossalmente, nel silenzio generale della categoria e soprattutto ad insaputa dei cittadini che ne sarebbero poi gravemente danneggiati.
Occorre parlarne anche perché oggi è il 1° maggio, Festa del Lavoro, e lunedì 3 maggio sarà la Giornata mondiale della libertà di stampa, dedicata quest’anno dall’Unesco all’Informazione come Bene Pubblico.
Sarebbe, quindi, opportuno approfittare di questa importante occasione per lanciare l’allarme sulla Fondazione Inpgi, Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani “Giovanni Amendola”, la cui Gestione Principale, unico ente previdenziale privatizzato in Italia sostitutivo dell’Assicurazione Generale Obbligatoria Inps in base alle leggi Rubinacci del 1951 e Vigorelli del 1955, é in gravissima crisi di liquidità (perde ogni giorno ben 665 mila euro! Siamo, insomma, sui livelli dell’Alitalia, ndr) e a rischio commissariamento dal 1° luglio 2021 dopo 95 anni di vita (é infatti nato nel 1926) e dopo aver fatto per decenni, ma senza alcuna concreta riconoscenza, da bancomat allo Stato e agli editori, accollandosi a proprie spese l’onere di pesanti ammortizzatori sociali e dei relativi contributi figurativi per centinaia di milioni di euro e garantendo così ai cittadini una corretta e compiuta informazione nel nostro Paese.
Come ampiamente riferito sabato scorso da Giornalisti Italia, il bilancio 2020 si é chiuso con un “rosso” di ben 242 milioni 169 mila di euro (circa 500 miliardi di vecchie lire), record negativo della sua lunga e gloriosa storia, nonostante il “tesoretto” di 65 milioni di euro, che é stato nel frattempo azzerato e che era stato accumulato grazie al contributo determinante dei giornalisti pensionati per effetto del taglio triennale 1° marzo 2017- 29 febbraio 2020 delle pensioni superiori ai 38 mila euro lordi l’anno (deliberato nel 2016 dal Cda dell’ente, avallato dal Ministero del Lavoro e convalidato dal Consiglio di Stato che l’ha ritenuto, però, non reiterabile in applicazione di una sentenza della Corte Costituzionale) e al blocco per 9 anni della rivalutazione delle pensioni.
Pertanto, la sua riserva tecnica reale ed effettiva (rapporto tra le pensioni in corso di pagamento ed il suo patrimonio al 31 dicembre 2020) é scesa a soli 2,09 anni contro i 5 anni previsti per legge, ma alla fine del 2021 rischia concretamente di scendere ben al di sotto dei 2 anni.
L’Inpgi 1 rischia il tracollo per il disinteresse della politica che ha trascurato del tutto da decenni il settore dell’informazione che ha subito, sin dal 2008, una gravissima e irreversibile crisi ormai più che strutturale.
Per l’Inpgi 1 é “allarme rosso”. Dopo una lenta, graduale ed inesorabile agonia, l’ente di via Nizza é ormai sull’orlo del baratro per l’esponenziale svuotamento dalle redazioni di giornalisti di quotidiani, periodici, agenzie di stampa, radio e tv private per effetto della gravissima crisi dell’editoria perdurante da 12 anni con conseguente drastica riduzione dei colleghi lavoratori subordinati assunti a tempo indeterminato che, da tempo, sono stati via via sostituiti da giornalisti lavoratori autonomi con versamento di contributi all’Inpgi 2. Crisi che si é ulteriormente aggravata per effetto della pandemia da coronavirus Covid-19 con l’inesorabile accentuazione del lavoro autonomo giornalistico.
Viceversa, parallelamente, per l’Inpgi 2, ente che assicura con una Gestione Separata i giornalisti lavoratori autonomi e che é gestito dagli stessi amministratori dell’Inpgi 1, non vi é alcun problema perché registra un vero boom di iscritti e naviga a gonfie vele e con le casse piene.
Alla fine del 2021 é addirittura previsto un sostanziale equilibrio tra il patrimonio delle due Gestioni Principale e Separata dell’Inpgi!
Dal 2011 ad oggi, per pagare puntualmente le pensioni e far fronte contemporaneamente agli ammortizzatori sociali della categoria caricati sull’Inpgi 1 per ben mezzo miliardo di euro (disoccupazione, cassaintegrazione, contratti di solidarietà, tfr in caso di fallimento, prepensionamenti a catena da aziende in crisi, mancati recuperi da aziende fallite, contributi figurativi da corrispondere anche in base all’art. 31 dello Statuto dei lavoratori sulle pensioni dei numerosi giornalisti eletti deputati, senatori, parlamentari europei, sindaci di grandi città, consiglieri e governatori di Regioni e crediti irrecuperabili da aziende fallite, ecc.), l’Inpgi 1 ha dovuto intaccare il suo patrimonio addirittura per 1 miliardo e 200 milioni di euro (circa 2 mila 300 miliardi di vecchie lire), essendo stato costretto a disinvestire titoli, fondi ed immobili.
E il tutto senza avere poi un ristoro integrale da parte dell’Erario, neppure quelli che lo Stato attende in sede europea dal contenzioso sul copyright, nonostante sia l’unico ente previdenziale privatizzato sostitutivo dell’Inps.
Gli unici due ristori ottenuti dallo Stato sotto forma di fiscalizzazione degli oneri sociali (unica forma consentita dal decreto legislativo 509 del 1994) sono le due “leggine” del gennaio e febbraio 2009 che destinano 20 milioni di euro l’anno per i prepensionamenti da aziende in crisi (ma che non coprono totalmente il danno derivante all’Inpgi dal mancato incasso di pesanti contribuzioni previdenziali) e la legge n. 178 del 2020 (finanziaria per il 2021) che, a partire da quest’anno, – ma senza, purtroppo, riconoscere nulla per il passato – accolla allo Stato l’onere di rimborsare all’Inpgi 1 il costo della cassa integrazione e di altri ammortizzatori sociali.
Ma, ad esempio, assurdamente non si prevede alcun ristoro derivante all’Inpgi 1 dai sempre più frequenti fallimenti di aziende editoriali conseguenti a sentenze definitive della magistratura favorevoli all’Inpgi 1 emesse a distanza anche di 15-20 anni dalla notifica di ingiunzioni conseguenti a verbali dei suoi 18 ispettori di vigilanza (in media neppure 1 a Regione!).
Ciò ha comportato paradossalmente all’ente danni per centinaia di milioni di euro, in quanto al mancato recupero di quanto dovuto per i contributi previdenziali con relative sanzioni ed interessi si aggiunge per l’Inpgi 1 persino la beffa di dover corrispondere ugualmente l’onere dell’accredito di contributi figurativi in favore dei giornalisti oggetto dell’ispezione! Insomma molte ispezioni si sono rivelate alla fine un clamoroso autogol!
Analogamente, in 51 anni di vigenza dell’art. 31 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) sono interamente finiti sulle spalle dell’Inpgi 1 senza ristori i costi dei pesanti contributi figurativi spettanti ai giornalisti eletti deputati, senatori, parlamentari europei, governatori di Regioni, a consiglieri regionali e a sindaci di grandi città. Il rapporto giornalisti attivi/pensionati Inpgi 1 di 1,53 é tuttavia in linea con quello dell’Inps.
L’Inpgi 1, Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani “Giovanni Amendola”, é un ente previdenziale incaricato di pubbliche funzioni in base all’art. 38 della Costituzione e privatizzato come Fondazione dal 1994 in base al decreto legislativo Berlusconi n. 509 del 1994, ma che é nato nel 1926 e, come detto, é l’unico ente sostitutivo dell’Inps in Italia in base alla legge Rubinacci n. 1564 del 1951, tuttora in vigore da 70 anni, e alla legge Vigorelli n. 1122 del 1955, nonché in base all’art. 76, punto 4, della legge 388 del 2000 e in base al comma 763 della legge 296/2006 (Finanziaria per il 2007) che ha modificato il comma 12 dell’articolo 3 della legge 8 agosto 1995 n. 335 (riforma Dini).
La Corte Suprema di Cassazione a sezioni unite, con sentenza n. 19497 del 16 luglio 2008, ha definito l’Inpgi 1 “un unicum” nel panorama degli enti previdenziali italiani, mentre la Corte Costituzionale, con sentenza n 214 del 1972 (emessa quando l’Inpgi era ancora un ente pubblico previdenziale, siamo 22 anni prima della privatizzazione), ha scritto che è «insussistente l’analogia fra la cassa di previdenza dei giornalisti e quelle degli avvocati, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e dei geometri…
Ancora meno sussiste, poi, una analogia tra la struttura e gli scopi della cassa dei giornalisti e le finalità di quella dei liberi professionisti di cui si è detto, perché la prima, e cioè l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani “Giovanni Amendola” (legge 20 dicembre 1951, n. 1564), cui possono iscriversi solo i giornalisti che hanno in atto un rapporto di lavoro, sostituisce a tutti gli effetti le corrispondenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie (art. 1) e cioè non solo quelle attinenti alla pensione di vecchiaia e invalidità, ma anche quelle che concernono la disoccupazione involontaria, la tubercolosi, le malattie e gli assegni famigliari (art. 3), mentre le ricordate casse di liberi professionisti hanno compiti ben più limitati e circoscritti. In sostanza, la cassa dei giornalisti costituisce un settore autonomo del complesso sistema previdenziale predisposto a tutela dei lavoratori dipendenti e i cui compiti sono assolti principalmente dall’Inps e dall’Inam».
Il 30 giugno prossimo – cioè tra appena 2 mesi – se non sarà rinnovata dal Governo e/o dal Parlamento scadrà, infatti, inesorabilmente la sospensiva del Commissariamento previsto dalla legge.
Le residue speranze sono affidate al tavolo con il Governo Draghi che può rappresentare l’ultima spiaggia utile per il salvataggio di questo storico ente benemerito, essendo necessaria in primis l’implementazione delle entrate contributive sin dal 1° luglio 2021 con l’ingresso nell’Inpgi di tutti quei lavoratori subordinati anche non iscritti formalmente all’Ordine dei giornalisti ch,e comunque, svolgano sostanzialmente a vari livelli attività di lavoro giornalistico e/o di comunicazione e informazione, i quali tuttora versano i contributi previdenziali all’Inps o alla Gestione Separata Inps o alla Gestione Separata Inpgi, come i circa 3 mila finti Co.co.co. o i giornalisti assunti anche in grandi aziende, ma non contrattualizzati con contratti giornalistici, o i giornalisti impegnati nelle reti televisive non equiparate a testate giornalistiche come i finti programmisti registi, o le finte partite Iva o le finte cessioni del diritto d’autore, nonché le migliaia di giornalisti occupati a tempo pieno negli uffici stampa privati e pubblici (Comuni, Province, Regioni, ministeri, enti istituzionali, Asl, Università, enti pubblici, federazioni sportive aderenti al Coni, ecc.) per colpa della mancata e puntuale applicazione della legge 150 del 2000 su cui la Corte Costituzionale nel giugno 2020 ha lanciato un accorato appello al Parlamento ad intervenire.
Ovviamente é necessario anche ridurre al massimo tutte le spese dell’ente (in proposito il Consiglio Generale ha tagliato i compensi di amministratori e sindaci del 10%), ma questa misura non servirebbe a nulla se non fosse contemporaneamente accompagnata da nuove e rilevanti entrate contributive che darebbero ossigeno alle casse dell’ente sempre più a corto di liquidità corrente.
La legge Rubinacci del 1951 ha stabilito, tra l’altro, che la misura dei contributi dovuti dai datori di lavoro non poteva essere inferiore a quella stabilita per le corrispondenti forme di assicurazione obbligatorie all’Inps. Ma ciò fino a pochi anni fa non é accaduto. E gli editori in circa 65 anni hanno potuto così risparmiare circa 1 miliardo di euro grazie appunto a questa contribuzione inferiore versata all’Inpgi 1 rispetto a quella che avrebbero dovuto versare all’Inps.
Si può, quindi, ben dire che l’Inpgi 1 ha fatto da bancomat sia per gli editori, sia per lo Stato che non si é comportato sul fronte dell’«assistenza« come, invece, fa da sempre con l’Inps, coprendogli tutte le elargizioni non strettamente previdenziali. Lo Stato si é, praticamente, disinteressato dell’ente dei giornalisti lavoratori subordinati ed ha risparmiato negli ultimi 10 anni ben mezzo miliardo di euro del costo delle crisi aziendali, costringendo l’Inpgi 1 ad attingere al suo stesso patrimonio per poter pagare puntualmente le pensioni e gli ammortizzatori sociali della categoria.
Ora é una corsa contro il tempo perché le promesse della politica di trovare tutte le soluzioni possibili al fine di garantire la sopravvivenza dell’Inpgi 1 si sono sinora rivelate “da marinaio”. In particolare non é stata ancora approvata dal Parlamento una norma mirata ad anticipare rispetto al 2023, come previsto dall’art. 16 quinquies del decreto-legge n. 34 del 30 aprile 2019 varato dal 1° Governo Conte su proposta dell’allora sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon (attuale sottosegretario all’Economia) e convertito in legge n. 58 del 28 giugno 2019, per l’ingresso nell’Inpgi 1 di circa 14 mila 500 “comunicatori” (circa 5.500 pubblici e 9.000 privati) che oggi versano all’Inps, ed accantonando ora per allora nel bilancio dello Stato per 9 anni tra il 2023 e il 2031 circa un miliardo e mezzo di euro complessivi dei loro futuri contributi previdenziali proprio per garantire la tenuta e la sostenibilità dell’ente dei giornalisti lavoratori subordinati.
L’ampliamento della platea con l’ingresso nell’Inpgi 1 dei “comunicatori”, nonché dei “bloggers”, come aveva invano proposto invano, nell’ottobre 2020, il senatore Sergio Puglia, presidente della Commissione parlamentare per il controllo sull’attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale, sarebbe determinante per il salvataggio dell’Istituto.
Sarebbero delle misure minime che la politica dovrebbe mettere in atto in segno di riconoscenza di quanto l’Inpgi 1 ha fatto per tanti anni in favore della categoria e della collettività dei cittadini senza essere stato mai ristorato. Altri sostanziosi aiuti economici potrebbero venire poi dall’Europa nell’ambito degli indennizzi a tutela del copyright. Ma, al momento, alle parole non sono seguiti i fatti. Ecco perché é necessario intervenire al più presto per il salvataggio dell’Inpgi 1 dal tracollo economico prima che sia troppo tardi. (giornalistitalia.it)
Pierluigi Roesler Franz
Ordine del giorno presentato dalle opposizioni in Consiglio Generale Inpgi
Garanzia pubblica senza l’ingresso all’Inps
Garanzia pubblica per le pensioni dei giornalisti italiani, senza l’ingresso nell’Inps. Noi la chiediamo da molto tempo, di fronte al disastro dell’Inpgi. E la riteniamo ora ancora più indispensabile per la sopravvivenza dell’Istituto e la difesa delle pensioni dei giornalisti italiani alla luce del bilancio 2020 che getta dubbi sulla possibilità di continuità aziendale del nostro Ente oltre il brevissimo periodo.
La Costituzione garantisce il diritto della pensione per tutti i lavoratori. Il comma 2 dell’articolo 38 parla chiaro: «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». E al comma 4 si aggiunge: «Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato».
Si tratta di uno dei principi cardine del welfare di Stato, quel sistema di sicurezza sociale che si esprime attraverso l’assistenza e la previdenza, appunto. E che, come norma suprema, non può certo essere smentito o sminuito da qualsiasi altra legge successiva.
Nel 1994, con il decreto legislativo 509, l’Inpgi ha avviato il processo di privatizzazione concluso a inizio 1995, insieme con altre Casse previdenziali, tutte di professionisti che esercitavano (ed esercitano) la libera professione: dai medici agli avvocati, dai notai ai farmacisti, a ingegneri e architetti. L’Istituto dei giornalisti dipendenti era un’anomalia. E tale è rimasta, come è stato riconosciuto anche da diverse sentenze della Corte Costituzionale. Da allora la nostra categoria è l’unica, tra i lavoratori dipendenti italiani, ad aver rinunciato alla garanzia pubblica.
L’Inpgi ha iniziato da oltre un decennio a registrare entrate previdenziali inferiori alle uscite: nel 2010 per la prima volta i contributi correnti (esclusi quindi quelli per anni precedenti o per altri motivi) sono stati inferiori alla spesa corrente per le pensioni, e poi sempre e sempre più in tutti gli anni successivi. Invece di reagire con prontezza, si è preferito salvare (fino al 2016) i bilanci con la rivalutazione degli immobili, varare riforme dure quanto tardive e inutili e, infine, individuare l’ingresso dei comunicatori come unica soluzione, senza voler prendere in considerazione alcuna altra ipotesi per mettere in sicurezza le pensioni dei giornalisti italiani.
La Corte dei conti ha per esempio sollecitato l’ampliamento della platea giornalistica, e anche noi lo abbiamo più volte sollecitato in varie sedi di consiglio generale e di commissioni. Una verifica avviata in Friuli Venezia Giulia sugli uffici stampa dimostra che ci sono situazioni da sanare e conseguenti versamenti previdenziali che negli anni non si è inteso recuperare, pur con bilanci in rosso. Ma sono al momento finite nel vuoto le sollecitazioni di ripetere l’operazione in altre regioni.
Avere una garanzia pubblica non significa affatto perdere l’autonomia della professione (ma da quando in qua è un Istituto di previdenza a tutelare la libertà dei giornalisti?) e neppure avere maggiori controlli.
Dal 1951, con l’entrata in vigore della legge Rubinacci (che è ancora in vigore insieme con la legge Vigorelli), l’Inpgi ha infatti garantito le prestazioni assistenziali (dal 1981 gli ammortizzatori sociali) e previdenziali dei giornalisti pur essendo indipendente dall’Inps. Anzi, rispetto a oggi era addirittura meno “vigilato” e con vincoli meno rigidi. La riserva tecnica, solo per fare un esempio, era limitata a 2 anni delle pensioni correnti rispetto ai 5 anni di oggi.
È oggi ancora più evidente che l’ingresso dei comunicatori, anche unito a nuovi, dolorosi tagli alle prestazioni, non è e non può essere in grado da solo di garantire nel breve periodo un ritorno agli utili per i bilanci dell’Inpgi, evitando quindi il commissariamento, e neppure una sostenibilità nel medio-lungo periodo.
Vi chiediamo quindi di sostenere, tutti insieme, di fronte al governo e alla politica, la richiesta di una garanzia pubblica che, insieme con il patrimonio di cui ancora l’Inpgi dispone, possa mettere al sicuro le nostre pensioni, quelle di oggi e quelle di domani. (Non approvato con 35 voti a 1
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