ROMA – Ventuno anni di attesa, ventuno anni senza verità e giustizia per Ilaria Api e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadisco il 20 marzo del 1994. Eppure la storia dei due nostri colleghi del Tg3 è stata raccontata in inchieste giornalistiche, ricostruita in libri, persino sceneggiata, a teatro ed al cinema. Sono stati scritti e disegnati anche fumetti, trasmesse decine di inchieste televisive e confronti in radio e tv. Eppure la verità giudiziaria, quella che conta, si è arenata più volte e la parola Giustizia, chiesta a voce alta da due genitori, Luciana e Giorgio Alpi, non è stata ancora scritta.
In oltre due decenni per ricordare Ilaria e fare luce sull’omicidio è stata istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta, si è svolto un lungo processo inquinato da incredibili errori ed omissioni, mentre ad Ilaria Alpi sono state dedicate piazze, vie, canzoni. Segno di una frattura tra sensibilità diffusa e desiderio che la memoria resti cosa viva, da un lato, e l’incapacità colpevole delle istituzioni di trovare la verità su quanto successo quel giorno di marzo a Mogadisco, a pochi passi dall’Ambasciata italiana.
Oggi non c’è un colpevole vero (solo una persona credibilmente innocente finita in prigione per effetto di un processo poco attendibile…); né un mandante, né il nome dei depistatori che hanno fatto passare quell’esecuzione per una rapina finita male, contro ogni evidenza.
A ristabilire alcuni principi di verità storica sul caso Alpi-Hrovatin ci ha pensato, non il Parlamento né un processo ma, ancora una volta, una inchiesta giornalistica della trasmissione “Chi l’ha visto”, Rai3, condotta da Federica Sciarelli. La giornalista Chiara Cazzaniga è riuscita a intervistare in tv il supertestimone Ahmed Ali Rage, detto Jelle, che praticamente nessun investigatore italiano in questi anni si era preso il disturbo di rintracciare. Un testimone chiave mai comparso in tribunale che ha ribadito ai microfoni del programma la non colpevolezza di Omar Hashi Hassan, il ragazzo somalo ingiustamente accusato, ripetendo l’accusa, che si deve verificare per aprire scenari di verità, di essere stato indotto a dire il falso da non identificati personaggi degli apparati di sicurezza, sicuramente italiani.
Ora l’inchiesta si riapre con la speranza che questi nuovi elementi possano ricomporre lo scenario del duplice omicidio, ripristinando la verità sinora taciuta.
Lo dobbiamo a Ilaria che è stata assassinata perché indagava con coraggio sulla mala cooperazione e sul traffico illecito di armi e di rifiuti tossici. E lo dobbiamo ai genitori di Ilaria che non si sono mai arresi di fronte all’omertà, ai depistaggi, all’occultamento delle prove.
Verità e giustizia sono l’unica richiesta credibile che oggi possiamo riaffermare, a ventuno anni da quell’agguato di Mogadisco. Ed oggi più che mai, non ci sono alibi per non rispondere a questa domanda che arriva dai giornalisti italiani e dall’intera comunità nazionale.
Santo Della Volpe
Presidente Fnsi