ROMA – Una verità piegata su se stessa, ma non chiusa definitivamente. A 25 anni dalla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, l’inchiesta sul loro omicidio sembra legata alla possibilità di rintracciare l’ultimo testimone chiave, che potrebbe imprimere un nuovo e disperato impulso alle indagini sulla giornalista del Tg3 assassinata assieme all’operatore tv il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio. Ma è ancora mistero sulla fonte confidenziale degli allora servizi segreti del Sisde, che nel 1997 aveva riferito dei collegamenti tra l’omicidio di
Ilaria e Miran ed i traffici di armi e rifiuti in Somalia.
A parlare di “irreperibilità” è la stessa Agenzia di informazione e sicurezza interna (ex-Sisde, ndr), così come si legge nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta avanzata dal pubblico ministero e in attesa della valutazione del Gip.
Nel documento depositato in Procura a Roma si legge che l’Aisi “ha riferito con nota riservata della irreperibilità della fonte con la conseguente impossibilità di interpellarla sull’autorizzazione a rivelarne l’identità”. E se questo nodo non sarà sciolto, sulla vicenda giudiziaria rischia di arrivare la parola fine. L’intercettazione tra due cittadini somali, secondo i quali “Ilaria è stata uccisa dagli italiani”, non ha portato ad alcuno sviluppo: per i magistrati della Procura di Roma gli elementi emersi si sono “rivelati privi di consistenza”.
Ma la Federazione Nazionale della Stampa, l’Ordine dei giornalisti e l’Usigrai hanno depositato l’opposizione all’archiviazione dell’inchiesta chiedendo al gip – attraverso l’avvocato Giulio Vasaturo – di “imporre ai nostri apparati di Intelligence di rivelare le generalità della fondamentale fonte confidenziale del Sisde” e sollevando una questione di legittimità costituzionale, chiedendo al giudice di rimettere gli atti alla Consulta. E quest’ultimo potrebbe essere solo l’ennesimo sviluppo di 25 anni di indagini, inchieste parlamentari e colpi di scena. L’ultimo è quello dell’assoluzione nel 2016 del somalo Ashi Omar Hassan, fino ad allora in carcere perché ritenuto colpevole del duplice omicidio del 20 marzo 1994 a Mogadiscio.
Quel giorno un proiettile di kalashnikov colpì alla tempia Ilaria e una raffica raggiunse Hrovatin. Entrambi stavano viaggiando su una Toyota diretti verso l’hotel Amana dopo aver saputo di fatti connessi a traffici illeciti di armi e rifiuti. E proprio l’ipotesi del ritrovamento diversi anni dopo di quella Toyota a Dubai – poi rivelatosi un errore – , delineò uno di quei punti oscuri mai risolti e su cui, secondo alcune accuse, calò l’ombra dei depistaggi.
Una serie di capitoli che dal ’94 continuano ad avvicendarsi e a cui, nel 2018, non è sopravvissuta la stessa Luciana Alpi, madre di Ilaria, morta dopo aver tentato invano di scrivere la fine cercando assassini e mandanti. (ansa)
A 25 anni dalla morte della giornalista e di Hrovatin, inchiesta verso l’archiviazione