BAGHDAD (Iraq) – “Useremo questo complesso per formare i giovani giornalisti, organizzare eventi, avere fondi per finanziare iniziative e sostenere le famiglie dei nostri martiri”. Moaid Allami è il capo del sindacato dei giornalisti iracheni, e vicepresidente dell’Unione di quelli arabi.
Guida un’organizzazione agguerrita di 15.000 iscritti: agguerrita nel senso vero del termine, purtroppo, ovvero segnata da decenni di guerra. Oltre 200 le vittime, “i martiri”, solo negli ultimi anni.
“In Iraq ci chiamano la quarta autorità dello Stato. La nostra autonomia non si discute”, sottolinea Allami. Il sindacato ha strappato il sì del governo all’esproprio di un palazzo presidenziale dell’era Saddam, un vero e proprio compound.
All’ingresso si staglia un edificio che sembra un tempio greco. È stato violentemente bombardato dagli americani nel 2003. È qui che Saddam fece una delle sue apparizioni prima della caduta di Baghdad. Sorge nella “Red Zone”, insicura insomma, non solo per possibili attività “nemiche”: qui i giornalisti hanno dovuto rimuovere tonnellate di detriti. Cemento, ferro, acciaio. Materiale militare.
Il cartello con un teschio delimita la zona nei pressi di un carro armato americano, ovunque sacchetti blu dall’indefinibile contenuto. Poco più lontano altri edifici sontuosi, con la ruota di un Luna Park sullo sfondo e il Tigri a due passi. Dentro le vestigi di un passato sepolto, lampadari, improbabili camini in marmo, qualche divano e un tavolo in noce per le riunioni.
A breve il sindacato dei giornalisti completerà i lavori di ripristino. Poi “alcune aeree verranno adibite a forme di attrazione turistica. I fondi serviranno per finanziare i corsi per i giovani, ma soprattutto per chi va in prima linea”, spiega Allami.
I corrispondenti di guerra iracheni vengono premiati il 27 giugno, in una sontuosa cerimonia nel cuore della super protetta Green Zone. Si battono per avere una copertura assicurativa sulla vita, ma anche telecamere e altre strumentazioni all’avanguardia.
Il coro è praticamente unanime. Hanno il sostegno della Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj), che nel solenne evento nella capitale irachena è rappresentata ai massimi livelli dal presidente Jim Boumelha e dai membri del Comitato esecutivo Franco Siddi (esponente della Fnsi) e Abdelnasser Najjar (esponente dei cronisti palestinesi).
È un momento di celebrazione. Arriva anche il premier Al Abadi. L’inno dei giornalisti risuona. La sicurezza alla fine allenta la presa. Tutti oramai hanno superato almeno cinque controlli e una decina di scan elettronici di ogni tipo. Scattano le interviste. Poi si ferma tutto.
È l’ora delle medaglie, alle famiglie dei giornalisti uccisi. Nella mega sala dell’Hotel Rasheed, esilio dorato dei “reclusi” nella Green Zone, scoppiano le lacrime. Non è certo piacevole ricevere certi riconoscimenti alla memoria.
C’è una vedova in nero: si dispera con accanto i due figli. Dopo la morte del marito, un cameraman, ha perso tutto. E il suo dolore sembra irreparabile. I responsabili del sindacato la rincuorano: le macerie del palazzo di Saddam serviranno anche per lei e i suoi figli, orfani degli “eroi della libertà di espressione”, come li chiamano qui a Baghdad. (Ansa)
Claudio Accogli