BEIRUT (Libano) – Per le sue affermazioni sopra le righe sui social media, i critici del regime saudita lo avevano soprannominato “Mr Hashtag”, come le etichette che apponeva alla fine di ogni suo post. Ora di Saud Al Qahtani, stretto collaboratore dell’erede al trono saudita Mohammed Bin Salman e secondo molti coinvolto nell’omicidio di Jamal Kashoggi, rimangono solo vecchie tracce su Twitter.
Da quando, all’indomani dell’assassinio dell’ex giornalista del Washington Post, è stato rimosso dal suo incarico di consigliere del prinipe Mbs, di lui – che un tempo appariva con frequenza in pubblico – non si è avuta più notizia. E aumentano le voci che abbia fatto una brutta fine, utilizzato da Ryad come capro espiatorio del delitto Kashoggi.
Lo scorso 28 agosto l’attivista palestinese Iyad Baghdadi, esiliato da Ryad e basato ad Oslo, aveva twittato di “aver ricevuto informazioni affidabili circa la morte di Saud Al Qahtani, avvenuta per avvelenamento ordinato da Mbs. La fonte è fidata e non posso rivelare altro a proposito”.
Nessuno, né Al Qahtani stesso né il regime saudita, ha confermato o smentito il contenuto di questo tweet di Baghdadi, che due mesi fa era stato posto sotto protezione dai servizi segreti norvegesi, dopo aver ricevuto dalla Cia informazioni circa la possibilità che l’attivista fosse nelle mire degli agenti sauditi.
Dopo alcuni giorni di silenzio, Baghdadi in un tweet ieri si è scusato “per la assenza dai social in questo periodo, motivata da ragioni legate alla mia sicurezza”. Come ricorda l’analista della London School of Economics Madawi Al Rasheed, esistono diverse ragioni per pensare che il regime saudita si sia potuto sbarazzare di Al Qahtani, visto che il suo nome è stato associato direttamente non solo all’omicidio Kashoggi, ma anche ad altri scandali che hanno coinvolto l’Arabia Saudita.
La sua implicazione nel caso del giornalista saudita-americano era stata argomentata in particolare in una indagine delle Nazioni Unite, condotta da Agnes Callamard lo scorso giugno 2019, dopo la quale per Al Qahtani era scattato il divieto di ingresso negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ed in altri paesi europei. L’intelligence americana lo ritiene il capo dello squadrone della morte inviato ad uccidere Kashoggi.
Nel 2017, il suo nome appare anche in relazione ad una detenzione forzata, quella del primo ministro libanese Saad Hariri a Ryad, durante la quale quest’ultimo viene indotto a leggere in diretta televisiva una lettera in cui rassegna le sue dimissioni da capo del governo, motivandola con le interferenze in Libano dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita, nell’obiettivo di provocare una crisi politica e minare l’influenza di Hezbollah – partito libanese sciita e filo iraniano – a Beirut.
Poi c’era stato il caso di Lujain Al Huthloul, attivista per i diritti delle donne, che nel 2018, in stato di detenzione dal mese di maggio a Ryad, era stata torturata e violentata: secondo i suoi parenti, nella veste di aguzzino c’era proprio Al Qahtani. Durante lo stesso anno, Al Qahtani aveva avuto un ruolo logistico in un altro vero e proprio “sequestro” di alcuni imprenditori e principi sauditi all’interno dell’hotel Ritz Carlton di Ryad, nell’ambito di presunte purghe anti-corruzione avviate proprio dall’erede al trono.
Dal 2012 Al Qahtani ha avuto poi una funzione di rilievo nella strutturazione delle attività di spionaggio saudite: dapprima richiedendo per conto di Ryad i servizi di sorveglianza dell’azienda italiana di IT Hacking Team, e poi stabilendo un contatto con la Nso, azienda israeliana di cyber intelligence.
Qualcuno, qualche tempo dopo, lo ha soprannominato il fondatore dell’«Esercito delle mosche elettroniche», cioè un presunto team di agenti provocatori e hackers sauditi attivo in rete. Proprio di questo “Esercito”, il giornalista del Washington Post, Jamal Kashoggi, si era dichiarato nemico giurato, promettendo di contrastare le attività delle “mosche elettroniche” con un “esercito di api elettroniche”, paragone entomologico che implicava il coinvolgimento di attivisti e prigionieri di coscienza sauditi che nella rete avrebbero dovuto smascherare le attività del Regno.
Saud Al Qahtani era uno dei più accesi sostenitori di Mohammed Bin Salman, col quale ha condiviso anche lo stesso percorso di studi. Nei suoi tweet era sempre molto marcata la retorica demagogica e polarizzante, con cui divideva il paese in watanis (nazionalisti, come lui) e Khains (traditori), sollecitando i cittadini sauditi a vestire i panni di “informatori” e “poliziotti civili”, ad “assistere il governo nello stilare una lista nera dei traditori e di coloro che macchiano la reputazione del Regno”, al fine di perseguirli.
Stava costruendo un database con i nomi di tutti i critici del regime di cui sbarazzarsi. Ed è anche per questo che forse il regime, alla fine, si è sbarazzato di lui. (agi)